Il resale marcia a grandi falcate in Cina. Tra startup locali e player internazionali, il fenomeno prende infatti ulteriore quota nell’ex Celeste Impero, con un valore che nel 2020 ha già toccato i 51 miliardi di yuan (circa 8 miliardi di euro). Il dato arriva dal report dello scorso novembre della società di consulenza iResearch, secondo cui il mercato cinese del resale arriverà a quota 208 miliardi di yuan entro il 2025.
In un humus di piccole realtà che operano nel segmento, compaiono sparute incursioni di nomi più noti. Su tutti quello del francese Vestiaire Collective, che sta costruendo un hub tecnologico proprio a Shanghai per rispondere alla domanda crescente nell’Asia-Pacific e in particolare in Cina, la quale (si legge su The Business of Fashion) “diventerà uno dei mercati più promettenti per lo shopping dell’usato”, ha affermato Baptiste Le Gal, responsabile della crescita dell’area Apac.
Ma la maggior parte delle piattaforme di rivendita internazionali, da Depop a TheRealReal, non sono ancora approdate nella terra del Dragone, in cui però si aprono sempre più ghiotte opportunità. Tradizionalmente, i consumatori cinesi sono diffidenti nei confronti dell’usato, spaventati dallo spauracchio della contraffazione e da una culturale propensione all’acquisto di prodotti ‘nuovi di zecca’.
Sull’onda della crisi climatica e della digitalizzazione, entrambe fortemente spinte dall’avvento della pandemia, la posizione dei consumatori nei confronti del second hand sta però gradualmente cambiando, trainata dalla abitudini d’acquisto delle generazioni più giovani.
Il risultato è una sensibile crescita del resale nell’arco degli ultimi due anni, che non accenna a diminuire. Per il momento l’impennata è ancora in gran parte da attribuire a piattaforme di rivendita locali, come Xianyu, di proprietà del colosso Alibaba, e ai luxury retailer Feiyu e Plum (meglio conosciuti come Hongbulin dai cittadini del Paese), i quali hanno beneficiato del boom dell’e-commerce e dell’aumento degli acquisti in modalità live streaming.
Certo, per il momento la crescita del segmento è ancora modesta se si considera l’entità dell’intero universo luxury nella Repubblica Popolare, che ha segnato nel 2021 entrate da 471 miliardi di yuan (74 miliardi di dollari) secondo Bain & Company, o se la si confronta a quella degli Usa o del vicino Giappone. Sempre secondo iResearch, i beni di seconda mano rappresentano solo il 5% del settore del lusso cinese, mentre le cifre per Stati Uniti e Giappone si attestano rispettivamente a circa il 31% e il 28 per cento.
Gli spazi vuoti lasciati dall’attuale assenza di grandi player significano però grandi possibilità ancora aperte, ma anche sfide altrettanto grandi, rappresentate per esempio dall’onnipresente ed endemico problema della contraffazione. Prevedibilmente le big company non sono certo sorde al nuovo trend: Alibaba e il competitor Jd.com hanno già debuttato sul fronte resale, battendo sul tempo i protagonisti del mercato occidentale.
Ma ancora non c’è un nome che la faccia da padrone, lasciando pensare che probabilmente sarà un concorso di retailer locali e solo in parte globali a far decollare il fenomeno.
Intanto la crescente disposizione dei consumatori cinesi verso il mondo del resale dà da pensare ai marchi di moda e lusso, che nel mercato della rivendita vedono una minaccia sempre più preoccupante. Minaccia a cui rispondono con una politica di costanti rincari, basti pensare all’ormai consolidata strategia di Chanel, ma anche di Hermès o Louis Vuitton, che oltre a voler tutelare la redditività a fronte di uno scenario inflazionistico risponde all’esigenza di spegnere i tentativi di arbitraggio e impedire l’insorgere di aree grigie e mercati paralleli.
La questione però rimane controversa, e il rischio è che l’effetto collaterale dell’aumento dei prezzi di listino sia in realtà proprio un indesiderato assist ai reseller, che cavalcano l’appeal che ricopre accessori sempre più costosi e desiderabili e il loro crescente valore per i consumatori, che intravedono la possibilità di accaparrarseli a prezzi minori ma comunque stellari.
La stessa maison della doppia C ha cercato di correre ai ripari in Corea del Sud, anch’essa interessata dall’avanzare del fenomeno, contingentando l’ingresso dei clienti nelle proprie boutique tramite profilazione. L’obiettivo è quello di mettere un freno ai clienti intenzionati a comprare grandi quantità di accessori firmati per poi rivenderli con ricarichi di almeno il 20 per cento. Mossa non troppo diversa da quella di limitare il numero di articoli acquistabili all’anno di alcuni dei suoi modelli più iconici, tra cui la ‘Classic Flap Bag’ e la ‘Coco Handle’.
La sfida per i grandi marchi consisterà quindi nel ‘salvare capra e cavoli’, mantenendo inalterate esclusività e redditività senza prestare il fianco al resale. Quest’ultimo, fino all’Estremo Oriente, sta già beneficiando dell’aumento della domanda di beni di lusso e della nuova attitudine dei consumatori. Una partita ancora aperta e tutta da giocare.