La brusca frenata per l’economia cinese gela il lusso europeo. In mattinata, tutti i principali titoli luxury sui listini continentali segnavano profondo rosso, con Kering e Lvmh in calo di circa il 3,5% in Borsa, in seguito agli allarmi in arrivo dalla terra del Dragone.
Il verdetto arriva dall’Ufficio nazionale di statistica, secondo cui il Pil della Repubblica Popolare ha perso nel terzo trimestre circa tre punti percentuali rispetto al secondo, passando dal +7,9% annuo a un +4,9 per cento. A pesare sul ritmo di crescita un concorso di cause e circostanze sfavorevoli, incastonate in uno scenario appena post-pandemico: la crisi energetica e quella del real estate, con l’incognita Evergrande, gli impedimenti nella supply chain e la nuova linea di politica economica promossa dalla classe dirigente.
Inevitabile l’impatto sui player occidentali, che ormai da tempo seguono con interesse e inquietudine le vicissitudini dell’Ex Celeste Impero, epicentro della pandemia alla fine del 2019 e primo Paese a risalirne la china. La virata socialista e autarchica del presidente Xi Jinping aveva fatto tremare le maison occidentali alla fine dell’estate, così come la stretta su celebrites e idol locali su cui i grandi nomi del lusso stavano investendo per intercettare i consumatori cinesi dell’ambitissima Generazione Z.
Ma sono soprattutto gli impedimenti nella catena di approvvigionamento a spaventare le aziende occidentali, molte impegnate in un avvicinamento della propria produzione in ottica ‘nearshore’. Da almeno un ventennio l’Asia è il cuore pulsante della manodopera di molti nomi della moda, dal lusso ai brand di fast fashion, che tra Cina, Vietnam e Bangladesh riuscivano a produrre i propri capi a costi più contenuti e convenienti. Ma il tragitto della ‘via della seta’ sembra essersi inceppato, lasciando uno scenario fatto di magazzini semivuoti, ritardi nelle consegne e trasporti costosissimi. Una crisi che interessa tutta la supply chain e ha tra i propri focolai proprio la Cina.
La quale, dal canto suo, sta attraversando diverse sfide importanti che stanno mettendo alla prova la seconda economia più grande del mondo. In prima linea, gli sconvolgimenti nel mercato immobiliare e le sorti incerte del China Evergrande Group, che sta lottando per evitare il default da 300 miliardi di dollari tra banche e obbligazionisti. Con ripercussioni anche su altre società del settore.
Intanto, il nord-est del Paese è in balia di una crisi energetica che ha fatto aumentare la produzione industriale complessiva solo del 3,1% a settembre rispetto a un anno prima, segnando la crescita più lenta da marzo 2020. Le scarse forniture di carbone e l’inasprimento degli standard sulle emissioni imposto dal governo centrale ha fatto fermare molti stabilimenti produttivi che, soprattutto in vista delle festività natalizie, lavorano a pieno regime per produrre device tecnologici, giocattoli e, naturalmente, abiti per conto delle aziende occidentali, anche su questo fronte legate a doppio filo alla Cina.
Tra blackout e fabbriche chiuse, un calo del Pil nel terzo quarter era già stato previsto, ma la flessione ha comunque battuto negativamente le attese, che stimavano un tasso di crescita del +5,2 per cento. In parziale controtendenza, però, la ripresa dei consumi, al di sopra delle aspettative: le vendite al dettaglio sono cresciute del 4,4% a settembre su base annua, contro l’atteso +3,3% e rispetto al +2,5% di agosto.
Ma il calo rispetto al 16,4% dei primi nove mesi dell’anno appare comunque impietoso. Attualmente sono in crisi le prospettive di crescita sull’intero 2021: stimato ancora il +8% ma lo stesso governo centrale ha ridimensionato il target al +6 per cento. A determinare cosa succederà, concordano gli esperti, sarà soprattutto l’evoluzione della crisi immobiliare, che potrebbe avere un effetto domino sul resto dell’economia.