Nubi all’orizzonte nella supply chain della moda. Da H&M fino a Puma e Nike, passando per Hugo Boss e Inditex: non si contano i nomi dei fashion brands che tradizionalmente hanno fatto dell’Asia il cuore pulsante della propria manodopera, ricorrendo a una rete di terzisti che storicamente consentono produzioni su larga scala a costi contenuti.
Una lunga marcia che con l’avvento della pandemia sembra essersi inceppata – come racconta l’inchiesta di Reuters – incontrando impedimenti proprio a monte di quella filiera che fino a oggi aveva rappresentato un modello di business funzionante ed efficace per il settore della moda, così come innumerevoli altri.
Magazzini semivuoti, consegne che procedono a rilento, difficoltà nel reperire materie prime da parte delle multinazionali che sembravano avere in pugno la manifattura locale. A partire dal mese di agosto in svariate zone del Vietnam l’imperversare della variante Delta che ha fatto impennare i contagi ha portato a un severo rafforzamento delle misure di sicurezza. Il ‘butterfly effect’ ha fatto sì che, come non era difficile da prevedere, le conseguenze si avvertissero fino in Europa.
I marchi del tessile del Vecchio Continente hanno nel sud-est asiatico la roccaforte della propria produzione, in particolare in Vietnam: dall’esportazione di abbigliamento e calzature fino al commercio del caffè, la ‘via della seta’ è ora un campo minato costellato di ostacoli. Solo una settimana fa l’americana Nike si è trovata, nonostante la buona performance trimestrale, a rivedere al ribasso l’outlook per i restanti mesi del fiscal year proprio alla luce degli intralci emersi nella supply chain: tra Vietnam e Indonesia, dove l’azienda dello swoosh produce il 30% del suo abbigliamento e il 50% delle calzature, il rallentamento dei trasporti fino al Nord America e la chiusura delle fabbriche ha fatto parlare il CEO di “mancanza di offerta disponibile”.
Anche l’italiana Benetton, intanto, starebbe cercando di portare più vicino a casa la propria manodopera, come dichiarato a Reuters dall’amministratore delegato Massimo Renon. In questo caso il gruppo starebbe guardando a Paesi come Serbia, Croazia, Turchia, Tunisia ed Egitto.
Il manager ha illustrato quella che ha tutta l’aria di essere una tendenza tutt’altro che transitoria nel tessile, e con ogni probabilità anche in altri segmenti di mercato: una supply chain lunga e irta di ostacoli come quella che dal sud-est asiatico arriva fino a noi sta vedendo schizzare in modo incontrollato costi e tempi di spedizione (che si ripercuotono anche sul consumatore finale), mostrando le crepe di un sistema produttivo che ha conosciuto il proprio momento d’oro negli ultimi 30 anni e che ora si rivela in tutta la sua insufficienza.
“È una decisione strategica quella di avere un maggiore controllo sul processo di produzione e anche sui costi di trasporto”, ha proseguito Renon, aggiungendo che quest’anno il gruppo ha già spostato oltre il 10% della produzione da Paesi quali Bangladesh, Vietnam, Cina e India. “Oggi un container che costava 1.200-1.500 dollari può costare fino a 10.000-15.000, senza una data di consegna certa”.
Anche i costi del trasporto marittimo diventano più dispendiosi per via della scarsità di navi mercantili disponibili, molte delle quali in stop durante la pandemia e non in grado di far fronte alla ripresa della domanda crescente dei consumatori, rimasta sopita per un anno e mezzo. Senza contare la dimensione etica di fronte al quale un simile modello di business ci pone. Oggi, con la crisi climatica che imperversa e la rinnovata sensibilità verso la responsabilità sociale, mettere in discussione un simile sistema diventa cruciale.
È stata una scelta condivisa da parte dei fashion brand, all’alba del nuovo millennio, quella di spostare la propria produzione in Paesi con un salario minimo inferiore a quello europeo, innescando un dilemma sull’eticità della moda e la difesa dei profitti che non accenna a scemare. In Bangladesh, Cambogia e Indonesia gli operai – denuncia il report di Clean Clothes Campaign – ricevono salari più bassi rispetto al 2019 e non sono stati pagati durante i mesi di chiusura delle fabbriche.
Ma probabilmente, se davvero ci sarà un cambiamento a lungo termine nella produzione del tessile, saranno sempre le logiche di mercato a imporlo: una supply chain più breve e controllata, nell’era post-Covid, potrebbe diventare una necessità. Intanto i grandi marchi corrono ai ripari. Tra gli altri, anche Hugo Boss sta cercando di avvicinare la propria produzione, mentre Lululemon, Gap e Khol’s, dal canto loro, affermano di volersi affidare al trasporto aereo, sebbene più oneroso, per garantirsi le scorte necessarie ad affrontare lo shopping delle festività ovviando al rallentamento sul fronte vietnamita.
Secondo la società di consulenza americana AlixPartners, il cambiamento delle supply chain è destinato a durare: “Più le catene di approvvigionamento sono globali, più le cose possono e andranno male”, spiegano i suoi analisti. La rete mondiale delle forniture aveva già da tempo iniziato a manifestare le sue storture, ma la pandemia sembra stare facendo da catalizzatore, spingendo le aziende a ricorrere al cosiddetto ‘nearshore outsourcing’, l’avvicinamento del proprio business al suo Paese nativo.
Una pratica che appare più sostenibile proprio nel momento in cui la globalizzazione sta rivelando le sue fragilità. Basti pensare alla crisi energetica che sta colpendo il nord-est della Cina, in balia di blackout e fabbriche chiuse. Le scarse forniture di carbone e l’inasprimento degli standard sulle emissioni imposto dal governo centrale ha fatto fermare molti stabilimenti produttivi, che soprattutto in questo periodo, in vista delle festività, lavorano a pieno regime per produrre device tecnologici, giocattoli e, naturalmente, abiti per conto delle aziende occidentali, che hanno iniziato a tremare.
Potrebbe essere proprio la crisi pandemica, dunque, il ‘breaking point’ che spariglierà le carte, imponendo logiche produttive diverse da quelle che hanno prevalso finora. Anzi, ha già iniziato a farlo.