“In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes” è una delle citazioni più famose di Andy Warhol. Nell’era delle reality star capitanate da Kim Kardashian e dei tiktoker da milioni di views la profezia sembra essersi avverata. Ma senza la propria immagine quante di queste celebrity digitali avrebbero conosciuto la notorietà? Non sono in tanti a conoscere il volto di Pietro Terzini ma le sue opere hanno raggiunto l’attenzione di un pubblico globale. Classe 1990, nato e cresciuto a Lodi, Terzini ha più di un aspetto in comune con il maestro della Pop Art, in primis la capacità di realizzare opere comprensibili al grande pubblico. Da alcuni anni sempre più luxury brand si rivolgono a lui per realizzare campagne ad hoc dopo aver osservato con curiosità la sua ascesa veicolata da Instagram e, soprattutto, dalle migliaia di condivisioni. Complice un linguaggio immediato e testi (prevalentemente in inglese) simili ad aforismi, Terzini riesce a interpretare con ironia l’allure di un marchio diventando spesso virale. Per gioco dà il via a un’estetica che oggi è immediatamente riconoscibile ed è stata accostata ai box arancio di Hermès fino alla facciata della Torre Velasca.
Chi era Pietro Terzini prima di diventare Pietro Terzini?
Da bambino ero un fan dei dinosauri, dei Pokémon, del basket e poi della moda. Grazie ai primi siti internet legati all’hip hop e all’Nba sono entrato in contatto con un immaginario street che in Italia non esisteva ancora. In seguito, la facoltà di architettura a Milano mi ha dato un’impostazione molto progettuale, fornendomi le basi di disegno con strumenti come Photoshop, Adobe Illustrator e AutoCad che utilizzo tuttora.
Come nasce il suo percorso professionale?
Mi sono laureato in architettura e ho lavorato presso vari studi sia in Italia che all’estero ma era difficile trovare lavori pagati e quindi, su suggerimento di mia sorella, ho fatto un master in marketing alla Bocconi differenziando così il mio curriculum. Nel 2016 ho iniziato a lavorare per The Blonde Salad dove sono rimasto per sei anni contribuendo al successo della piattaforma. Sono entrato come stagista fino a lavorare all’e-commerce di The Blonde Salad e poi di Chiara Ferragni Collection, diventano infine responsabile dei contenuti di TBS, è stata una grande scuola che mi ha dato la possibilità di interfacciarmi con molti marchi moda e capire le potenzialità dei social media. Erano gli anni in cui ci si spostava da Facebook a Instagram che non era ancora esploso.
Quando ha iniziato a interessarsi ai fashion brand?
Nel tempo libero mi dedicavo ad alcune attività creative e portavo a casa i primi regali che arrivavano a Chiara, cadeau con packaging molto belli come le scatole di Louis Vuitton e Prada. Guardandole in libreria ho deciso di scriverci qualcosa trasformandole sostanzialmente in meme. Questo tipo di contenuto ha iniziato a girare online, sono riuscito ad entrare nel mondo dell’arte tramite la galleria Rosenbaum Contemporary di Palm Beach, in seguito anche in alcune gallerie italiane fino alle collaborazioni con i brand. Ho intrapreso così una carriera indipendente mettendo insieme le mie passioni da bambino, l’infarinatura acquisita al Politecnico e l’expertise digital appresa da The Blonde Salad.
Come si definirebbe?
Le categorizzazioni non mi fanno impazzire. Per alcuni brand sono un consulente, per altri sono un designer con cui fare una capsule collection, per le gallerie sono un artista. Io di fatto sono un creativo contemporaneo.

Com’è il rapporto con i marchi con cui collabora?
Sono abbastanza fortunato perché i miei committenti, dall’hotellerie fino all’hi-tech e ovviamente la moda, mi lasciano quasi sempre carta bianca. Mi interessa sempre fare qualcosa che sia rilevante innanzitutto per la gente, mantenere una coerenza comunicativa, grafica, riconoscibile per il mio pubblico online e che possa essere funzionale per i committenti.
Quando ha capito di essere un creativo di successo?
Ogni giorno mi sveglio è dico “si riparte da zero”, ho un approccio molto umile perché so che la creatività è una sfida quotidiana. Ho iniziato a capire che quello che stavo facendo poteva avere una sorta di potenziale quando ho avuto delle commissioni da alcuni privati di Hong Kong, è il potere dei social. Cerco sempre di non essere banale ma, allo stesso tempo, ci tengo a realizzare molti lavori. È importante la qualità ma anche la quantità; se ho avuto un riconoscimento anche al di fuori dei bastioni di Porta Venezia è perché viviamo in un periodo in cui è importante esserci, se si molla il colpo si rischia di essere dimenticati.
Da qualche tempo ai lavori canonici si è aggiunta una serie di opere legate al mondo dei DM (direct message). Come mai?
A novembre uscirà il mio primo libro, edito da Solferino, che si intitola semplicemente ‘100 DMs’ e comprende appunto cento direct message pubblicati su Instagram. Il volume diventa un oggetto che si legge in 3 minuti e raccoglie la mia attività di un paio d’anni. I DM nascono sulla piattaforma Instagram, li stampo e ci faccio un libro, in pratica il processo inverso della digitalizzazione. Mi piace intuire cosa rispecchia la vita della gente, come i sacchetti dei brand o i DM, sviluppare l’idea in un filone che approfondisce quel tema fino a raggiungere un altro livello. Un sacchetto è un sacchetto, un DM è un DM ma la pubblicazione in serie può anche essere considerata arte. Mi piace rendere cose semplici e popolari qualcosa d’altro, alcuni le considerano arte, altri no. Entrambi i formati sono legati alla scrittura.
Perché i marchi del lusso si rivolgono a lei?
È un discorso di tone of voice. Io ho un modo di creare slogan più rilassato rispetto a quello che hanno le grandi aziende. Quando firmo io una campagna è Terzini che si esprime mentre per un grande marchio è più difficile elaborare un messaggio diretto in maniera personale. È importante anche il format con cui è nata la mia idea: i billboard vengono spesso scattati passando dal formato fisico al digitale, quindi le campagne diventano virali in maniera organica. Quando la gente ricondivide qualcosa è molto più efficace di quando è un brand a pubblicizzarsi.
Ci sono state collaborazioni complesse? Con chi le piace lavorare?
Tutte le collaborazioni, a parte casi rari, sono sempre un po’ complicate. Un brand con cui mi piace sempre lavorare è Tiffany, per un discorso di team, il brand è fatto di persone con cui è più o meno facile interagire.
Con quale brand vorrebbe realizzare una campagna?
Mi piacerebbe lavorare con Jordan, uno dei miei brand preferiti essendo fan di Michael Jordan, dopo aver visto il film ‘Space Jam’ ho giocato per più di dieci anni a basket. Non ho ancora sviluppato partnership con il mondo dello sport e della musica pur essendo ambiti che mi piacciono molto.
Quali sono i suoi punti di riferimento? Si ispira a qualcuno?
Non guardo gli altri altrimenti finisco per copiare ma mi faccio ispirare dalle vite dei miei amici e da quello che succede in giro. Guardo a Kaws, Takashi Murakami, artisti pop che fanno delle opere veramente belle, i miei preferiti insieme a Damien Hirst.
