Dove sono le donne nei management della moda italiana? Qual è lo stato dell’occupazione femminile per le aziende del fashion made in Italy? Sono questi i temi al centro dell’evento “Donne e moda: il barometro 2022” promosso da PwC Italia in collaborazione con Il Foglio della moda, inserto del quotidiano Il Foglio, dedicato alla stampa.
Il dibattito, che ha coinvolto politiche, imprenditrici e manager, ha messo in luce i risultati della seconda edizione della survey condotta dalla società di consulenza con l’obiettivo di indagare la presenza femminile su tutta la filiera della moda italiana, analizzando la tipologia di mansioni ricoperte dalle donne nelle aziende e la loro presenza nei ruoli apicali.
“La tendenza mi pare in costante miglioramento – ha commentato Carlo Capasa, presidente di Cnmi -. Non bisogna guardare solo il cammino che resta ancora da compiere, certamente lungo. Ma tutti quei segni positivi che mi sembrano l’indicatore più efficace di un costante miglioramento”. E un miglioramento, a ben guardare, c’è stato, grazie all’onda lunga della ormai decennale legge Golfo–Mosca, che ha imposte quote di genere nei consigli di amministrazione e sindacali delle società quotate in Italia, e un mastodontico movimento sociale, politico e di opinione che spinge verso una sempre maggiore rappresentazione della diversità a tutti i livelli.
Balza subito all’occhio una crescita nel corso del 2021 della quota di donne negli organi societari della moda tricolore: secondo l’analisi di PwC, condotta su un campione di 57 realtà associate a Camera Nazionale della Moda Italiana, tre donne su dieci sono riuscite a entrare negli organi societari del comparto (arrivando a una rappresentanza femminile del 30,4%), segnando un aumento del 7,8% sul 2020.
Guardando solo alla composizione dei cda del fashion, le donne rappresentano il 25,6% dei membri (+11,6% sul 2020). Nonostante il visibile miglioramento, siamo ancora lontani dal raggiungere la media europea, pari al 32,7%, e quelle dei player internazionali che vedono la Francia in testa con il 41,7% di donne nei board, seguita da Stati Uniti (37,9%) e Regno Unito (36%), riporta Mediobanca.
Nel 2021, i best in class del fashion italiano che hanno brillato per presenza femminile nel proprio consiglio d’amministrazione sono stati Brunello Cucinelli e Salvatore Ferragamo, entrambi con sei donne sedute al board, e Tod’s, in terza posizione con cinque (tra cui il jolly Chiara Ferragni).
A livello globale, nel 2021 sono state nominate poco più di 80 nuove CEO donne nel settore fashion, valore in flessione rispetto alle 100 nomine di AD femminili registrate nel 2020 (da Nextail, Fashion Newest CEOs, 2021 e 2022).
“Abbiamo un notevole gap da colmare rispetto al settore a livello globale ed europeo”, è intervenuta Erika Andreetta, Emea luxury community leader PwC Italia -. Auspichiamo che le misure in cantiere da parte del governo e una maggior attenzione alla formazione Stem da parte dell’universo femminile possano contribuire a uno sviluppo paritario e sostenibile del comparto”.
La rappresentazione delle donne ai vertici delle aziende, è presto emerso nel corso dell’evento dedicato ai risultati dell’indagine, non è che la punta dell’iceberg di un intero sistema che sembra intralciarle nel raggiungere le posizioni fin dalla loro formazione, spesso non orientata a ricoprire ruoli strategici e dirigenziali. Ma anche l’assenza di sostegni adeguati da parte dello Stato, che se potenziati contribuirebbero ad affiancare le donne nel farsi strada in un percorso a ostacoli che spesso vede la loro carriera interrompersi ben prima di arrivare al vertice della piramide.
Non è un caso che la presenza più importante di donne lungo la filiera della moda si concentri nei gradini più bassi e intermedi. Il comparto tessile-abbigliamento, per esempio, conferma quella che è sempre stata la sua composizione, con una media della manodopera femminile che nel 2020 è stata del 59,8%, superiore di oltre 30 punti percentuali alla media nel comparto manifatturiero nazionale nel suo complesso (28,7 per cento).
A livello di qualifica, l’incidenza femminile più alta si registra nelle posizioni impiegatizie, dove le donne rappresentano il 67,5% del totale dei dipendenti e a seguire nei ruoli di produzione: il 58,2% degli operai è donna così come il 58,1% degli apprendisti. Ancora minoritaria, invece, la percentuale di donne “quadro”, pari al 37,6% contro il 62,4% di uomini, e ulteriormente al ribasso per i ruoli dirigenziali (22,6% donne, vs. 77,4% uomini).
Altra criticità emersa dai risultati è la scarsa incidenza di donne giovani under 29 (9,8%) e della fascia 30-39 anni (19,1%) nello scenario dell’occupazione femminile. Le categorie più rappresentate sono quindi indubbiamente le donne fra i 40-49 anni (32,8%) e tra i 50-59 anni (32,4 per cento).
In ambito conciario invece le donne sono il 18% dei lavoratori, per un valore assoluto di 3.109 addette, di cui circa l’89% con contratto a tempo determinato. Solo il 9%, secondo Unic, ricopre un ruolo esecutivo o dirigenziale.
Incoraggiante il panorama delle piccole e medie imprese: tra le Pmi associate a Cnmi, Smi, Cna e Unic più della metà (51%) dichiara una presenza di donne lavoratrici superiore al 60% e oltre il 36% afferma di avere un cda con una quota femminile oltre il 60%, mentre quattro CEO su dieci sono donne. Proprio qui, è emerso dal dibattito, andrebbero destinati gli investimenti più mirati, in modo che le promettenti Pmi si trasformino in fucine di talenti per le manager di domani.
In generale, ha concluso Andreetta, “la filiera della moda a livello nazionale ha la necessità di una riqualificazione e di un inserimento di nuove generazioni per dare sostenibilità a questo importante settore del Sistema Paese. Gli istituti tecnici, i corsi universitari e i master in ambito digitale e nuove tecnologie, giocheranno un ruolo fondamentale per mantenere competitivo il settore a livello internazionale”.