Il segreto del successo del jeans premium americano? Sorpresa: è targato Italia. Sebbene la quota rilevante del mercato dei cinquestasche nel mondo (70%), secondo Euromonitor International, sia assorbita dai jeans di fascia medio-bassa (in termini di prezzo) che si approvvigiona per la materia prima in denim prevalentemente in nazioni diverse dall’Italia, nella fascia alta del mercato il Belpaese si conferma come uno dei partner di riferimento per i tessuti in denim. E non solo negli Usa, ma a livello mondiale. “Fino agli anni Novanta e all’inizio degli anni Duemila, negli Stati Uniti si producevano almeno 500 milioni di metri di denim. Oggi ne producono verticalmente quasi zero”, spiega a Pambianco Magazine Alberto Candiani, general manager Candiani Denim, il principale gruppo italiano specializzato nella produzione di tessuti in denim con i suoi 89 milioni di euro di ricavi nel 2018 e un export pari al 90% del fatturato. D’altra parte, Candiani conosce bene il mercato a stelle e strisce: “Gli Usa assorbono il 35% del nostro turnover”, assicura. “L’Italia è l’ultimo produttore di denim verticale in Europa, con l’eccezione forse della Turchia”, sottolinea. Buone notizie, per il denim italiano, considerata poi la vera e propria riscoperta del cinquestasche nel mercato nordamericano e lo sdoganamento del jeans anche nell’alta moda, da Dior come da Prada. Uno scenario roseo che, però, deve fare i conti con dati congiunturali per il momento non altrettanto scoppiettanti. Secondo l’analisi elaborata da Confindustria Moda, i tessuti in denim italiani hanno perso in esportazioni il 14,2% in valore nel 2018 fermandosi a quota 123,4 milioni di euro. Una performance ben peggiore di quella, comunque in rallentamento, del jeans tricolore: l’export è calato del 2,2% a 713 milioni di euro (mentre le importazioni sono aumentate del 3,6% a 579 milioni di euro), frutto dell’arresto delle vendite all’estero dei cinquetasche donna (-7,6%) a fronte, invece, di una leggera crescita dell’uomo (+1,3%), storicamente main business dell’Italia (rappresenta oltre il 60% del totale dell’export). A guardare bene, però, il tracollo dell’appeal all’estero dei tessuti in denim è il risultato, in realtà, di un cambiamento della geografia della delocalizzazione produttiva del prodotto finito. I segni negativi coinvolgono quelli che, generalmente, vengono considerati i principali hub manifatturieri fuori dall’Italia, ovvero Tunisia (-9%), Turchia (-18%), Marocco (-7%), Romania (-41%), Bangladesh (-5%), a fronte, invece, di una crescita del Vietnam (+38%). Depurata da questi dati, la classifica delle esportazioni vede un andamento meno preoccupante, anche se altalenante. Frena la Germania (-20%) ma crescono, per esempio, gli Stati Uniti (+5%) che rappresentano, peraltro, un bacino ancora più importante per il made in Italy (valgono da soli l’8% contro il 6% dell’area teutonica). Ed ecco, quindi, che si torna agli Usa. “I brand del segmento premium hanno riscoperto da alcuni anni il denim più autentico”, riprende Candiani. Il riferimento va a etichette più di “nicchia” come 7 For All Mankind, Citizen of Humanity, Hudson Jeans, AG Jeans by Adriano Goldschmied o Mother. Altrove, Italia compresa e con le debite eccezioni, il sourcing è più cheap oppure la tendenza è più legata ai dettami della moda. “L’Italia della manifattura del prodotto finito a mio avviso sta vivendo una fase di assestamento”, continua Candiani. In questo ambito, la sostenibilità è l’elemento che fa la differenza. Oltreoceano questo concetto l’hanno già intuito. “In Italia, invece, la sensazione è che i produttori di tessuto e le lavanderie siano molto avanti sul discorso ambientale mentre i marchi, in genere, debbano ancora colmare questo gap. Ma lo faranno perché il consumatore è il primo a essere pronto e a richiedere una sostenibilità concreta e coerente che riguardi tutta la filiera”. È d’accordo Stefano Albini, presidente di Albiate 1830, marchio di tessuti sportswear e denim che fa capo al gruppo Albini, uno dei principali cotonifici italiani (153 milioni di euro il fatturato della capogruppo). “Facciamo tessuti in denim che vendiamo al mondo del lusso – racconta Albini – e la proposta alta del denim è legata all’elemento della sostenibilità”. Secondo il presidente, “fino a uno o due anni fa il mercato del denim ha sofferto nella nostra fascia. Ora stiamo sperimentando un buon riscontro”. A favore del made in Italy gioca anche il fatto che le aziende possono lavorare su quantità limitate. “Questo significa più ricerca stilistica e qualità inserita in un contesto di sostenibilità. È la carta vincente dell’Italia. Nel nostro caso, per esempio, abbiamo lavorato da tempo, consentendo di ottenere risparmi di acqua, energia e coloranti. I brand della moda ci consentono di andare avanti in questa direzione perché è questo che chiedono. E dirò di più. Fanno controlli regolarmente perché hanno la necessità di essere sicuri di quel che sostengono, ovvero che l’intera loro filiera sia sostenibile”.