Niente sprechi, siamo inglesi. Nel Regno Unito, la questione della sosteniblità dell’industria della moda è arrivata a Westminster, con il Parlamento che, tramite l’Environmental Audit Committee, ha chiesto a produttori e retailer di mettere nero su bianco le misure adottate per favorire un basso impatto ambientale della loro supply chain. Il risultato è stato una sonora bocciatura della moda made in Uk da parte del legislatore di sua Maestà, che ora potrebbe tassare gli sprechi. Si affianca allo scenario che riguarda le aziende inglesi anche il progetto targato Westminster City Council per la trasformazione delle arterie londinesi dello shopping. Dopo il rinnovo di Bond Street, l’autorità locale a capo della City of Westminster, il centro della capitale inglese, dovrebbe fare di Oxford Street una strada a “zero emissioni”.
LA MODA UK È “INSOSTENIBILE”
Il via ufficiale dell’iniziativa dell’Environmental Audit Committee risale all’ottobre scorso, quando la commissione che fa capo al sistema parlamentare d’Oltremanica ha sottoposto alle 16 maggiori aziende del fashion inglese (settore che oggi vale oltre 36 miliardi di euro) un questionario realtivo alle best practice già in atto, all’adesione volontaria a programmi votati alla sostenibilità ambientale e alla coerenza rispetto a norme e iniziative a tutela dei diritti dei lavoratori. Tra i criteri di valutazione dell’impegno del retail figurano l’adesione al Sustainable Clothing Action Plan, l’uso di cotone organico, l’uso di materiali riciclati e l’abbattimento delle emissioni legate a sostanze chimiche pericolose. Sotto la lente del Parlamento sono finiti i processi della manifatura, i contratti di lavoro, gli inventari e gli smaltimenti delle giacenze. “Il modo in cui progettiamo, produciamo e scartiamo i nostri vestiti ha un enorme impatto sul nostro pianeta – ha dichiarato Mary Creagh, membro del Parlamento inglese e chair dell’Environmental Audit Committee, al momento del lancio dell’inchiesta -. I dettaglianti di moda e calzature hanno la responsabilità di ridurre al minimo l’impatto ambientale e di assicurarsi che i lavoratori delle loro catene di approvvigionamento ricevano un salario adeguato. Vogliamo sapere cosa stanno facendo per rendere il loro settore più sostenibile”. A quanto pare, non abbastanza: dall’inchiesta è infatti emerso che l’industria inglese della moda è “sfruttatrice” e “non sostenibile”. Solo un terzo dei retailer scrutinati è risultato conforme alle iniziative internazionali che garantiscono un salario di sussistenza ai lavoratori del settore. Tra le aziende “meno impegnate” in termini di sostenibilità ci sarebbero JD Sports, Sports Direct, Amazon Uk e gli e-tailer Boohoo e Missguided. “La mancanza di impegno da parte di Amazon – si legge nel report dell’Environmental Audit Committee – è stata particolarmente degna di nota. Abbiamo ricevuto un resoconto di due pagine che non ha risposto alle domande poste. Pur comprendendo che Amazon è principalmente un fornitore di servizi logistici e un venditore per conto di altre aziende, Amazon Uk è una realtà di spicco dell’industria della moda del Regno Unito, con i suoi marchi e in qualità di ‘patron’ (una sorta di premium partner, ndr) del British Fashion Council. La sua grandezza, il suo grado di diffusione e il potenziale di crescita come retailer di moda fanno sì che debba impegnarsi di più per la sostenibilità in futuro”. Bocciato anche il brand di lusso Kurt Geiger, che non ha risposto a nessuna domanda del questionario. All’opposto, tra i brand protagonisti dei maggiori sforzi in positivo figurano Asos, Marks & Spencer, Tesco, Primark e Burberry. Lo scorso anno la fashion house guidata da Marco Gobbetti era finita sotto tiro per l’eliminazione delle giacenze di magazzino. La risposta del manager italiano si è tradotta nell’impegno pubblico, da parte di Burberry, a non distruggere più i prodotti invenduti. La pelle Burberry, inoltre, dal 2017, viene donata a Elvis & Kresse, una società che ricicla i cast-off in nuovi prodotti.
TASSE SUGLI SPRECHI
L’effetto dell’azione di Westminster sarà duplice. Le aziende Uk della moda che producono capi eco-friendly potrebbero beneficiare di incentivi fiscali. Al contrario, le insegne meno impegnate in termini di sostenibilità potrebbero dover pagare un penny in più per ogni capo prodotto, se la supply chain non dovesse rispondere a standard precisi. Il piano legislativo è atteso per i prossimi mesi. Il pagamento di un penny per capo servirà, con ogni probabilità, a finanziare una migliore raccolta dei capi pronti per essere riciclati. “Il termine ‘fast fashion’ significa che consumiamo troppi vestiti e ne ricicliamo troppo pochi – ha continuato Creagh -. È tempo che i retailer della moda si assumano le responsabilità di quello che producono”.
IL NUOVO VOLTO DELLE VIE DELLO SHOPPING
Le ambizioni di Londra non si fermano ai processi aziendali, con la capitale inglese che lavora alla valorizzazione del West End. L’area a ovest della City ha oggi un valore, in termini di business retail, di 10,4 miliardi di euro. Dopo la conclusione dei lavori di rinnovo di Bond Street, il Westminster City Council ha svelato un progetto che dovrebbe fare di Oxford Street una strada a “zero emissioni”. La proposta è nata in seguito alla bocciatura, da parte dei commercianti e dei residenti dell’area di Westminster, del progetto di totale chiusura al traffico entro il 2020 avanzato da Sadiq Aman Khan, sindaco della capitale inglese. Nel nuovo piano, la circolazione sarà consentita solo a bus e veicoli commerciali ecologici.