I retailer non possono più sottovalutare ‘l’opportunità plus-size’, un mercato che inquadra l’abbigliamento femminile dalla taglia 46 in su, e che oggi, negli Stati Uniti, vale 20 miliardi di dollari (circa 17 miliardi di euro). A dirlo è la stampa a stelle e strisce, che evidenzia come insegne di abbigliamento tra le più popolari finiscano per ignorare le esigenze di gran parte del pubblico femminile. “Le statistiche in questo settore sono impressionanti – scrive il portale The Fashion Law -: quasi la metà delle donne negli Stati Uniti veste una taglia dalla 12 (appunto l’italiana 46) in su”. Secondo la società di ricerca McKinsey, la domanda di abbigliamento curvy starebbe crescendo, come dimostrano anche i riferimenti al ‘plus-size’ nella stampa di settore, e nel 2020 i ricavi della categoria dovrebbero raggiungere i 24 miliardi di dollari. Tuttavia, sarebbero ancora molti i brand internazionali con potenzialità inespresse per questo tipo di offerta (in primis colossi dello sportswear come Nike o Under Armour), o che addirittura ancora non coprono il segmento curvy (si pensi a Zara). Le cose si fanno peggiori, ricorda Bloomberg, se ci si sofferma sugli store fisici del brand, “dove le taglie forti sono posizionate in corner non centrali, con capi che tendono a coprire le donne piuttosto che a valorizzarle con proposte audaci e stilisticamente accattivanti”. Non mancano però, anche in America, insegne che si evidenziano per proposte di qualità (è il caso della collaborazione tra il retailer plus-size Lane Bryant e lo stilista Prabal Gurung) o griffe che scelgono di portare in passerella ragazze dalle forme generose (Michael Kors, Christian Siriano, Anna Sui).