Si chiamano MM6, A.D.E.L.E. 1981, DL1961, Ean13, L.B.M. 1911, R95TH e non si tratta di automi protagonisti del nuovo capitolo di Star Wars. Queste sigle, composte da lettere e numeri, potrebbero essere scambiate per targhe automobilistiche o codici fiscali. In realtà, sono i fashion brand di oggi. Ai tradizionali Salvatore Ferragamo, Fendi e Ralph Lauren, infatti, si stanno affiancando una miriade di nuovi marchi che preferiscono essere identificati da una successione apparentemente casuale di segni alfanumerici.
Negli anni di massimo splendore del made in Italy, i rampanti 80, si ricordano pochi casi simili: Nino Cerruti 1881 e la linea di abbigliamento formale di Versace, V2. Da qualche stagione invece i calendari delle fashion week sembrano invasi da label quali 3.1 Phillip Lim, DSquared2 (capitanato dai gemelli italo-canadesi Caten), N° 21 (disegnato dallo stilista Alessandro Dell’Acqua) e MM6 Maison Martin Margiela. Al di fuori delle passerelle si contano centinaia di marchi analoghi, basta scorrere la lista di quelli presenti nei siti e-commerce come Yoox, LuisaViaRoma e Net-a-Porter.
C’è chi sceglie di battezzarsi prendendo ispirazione da un indirizzo: Avenue 67, via Roma 15, via Milano 35. Altri preferiscono puntare su un anno particolare: Ports 1961, Bertoni 1948, Marechiaro 1962, Bagutta 1975, L.B.M. 1911, King’s 1978, Giorgio Fedon 1919, Belfe 1920. A ben guardare alcuni non sono che l’acronimo di un brand già conosciuto, è il caso di EA7, costola sportswear di Emporio Armani. Per Y-3 che riassume in soli tre tratti la lunga collaborazione tra lo stilista Yohji Yamamato e Adidas (“3” rappresenta le bande del famoso logo) c’è chi invece non conosce sintesi: 9.2 by Carlo Chionna, 50 100 Firenze, BP56FRP11, Derek Lam 10Crosby, 7 For All Mankind (si prevedono etichette lunghe quanto papiri). I più arguti riescono a tradurre in pochi caratteri i tratti rappresentativi di una collezione o strappare un sorriso: D+, 8PM, 2nd day, 120% lino, 0039 Italy, PH 5.5.
Per chi non si accontenta di lettere e numeri ecco inseriti anche una massiccia dose di punteggiatura e simboli grafici, figlia di Twitter ma poco lontana dalla vastità ortografica dei geroglifici egizi. La “&” di Dolce & Gabbana è ora sostituita dal “+” del marchio in ascesa Alice + Oliva; la cantante Gwen Stefani ha intitolato L.A.M.B. il primo disco da solista conservando il nome anche per la sua linea di abbigliamento (Love Angel Music Baby), chissà cosa si nasconde invece dietro A.P.C., D.A.T.E., O.X.S. e P.A.R.O.S.H. Tutti un po’ figli di C.P.Company. Infine quelli che vanno oltre creando una vera e propria macedonia semantica: F**K Project, Fuad++, Y&KEI, L:ù L:ù, Shop ★Art, Y Tù?.
Nonostante il proliferare dei nuovi ibridi linguistici resta in dubbio l’effettiva funzionalità di questi nomi. Se il primo scopo di un brand è essere riconosciuto con facilità dalla maggior parte dei possibili clienti, il retrogrado formato “nome cognome” resta preferibile a sigle da collasso informatico. Pur apprezzando la creatività dei nuovi designer Prada, Gucci e Chanel sono decisamente più immediati di Play +39, R13 e Art 259 Design. Le parole sono importanti: Moschino Cheap&Chic potrebbe risultare un po’ lungo, ma resta pur sempre in grado di comunicare lo stile di una collezione. La musicalità di Miu Miu o Naf Naf non può essere equiparata a KD2024, più vicino alla marzialità di un codice militare. Per non parlare delle povere commesse, riusciranno mai a pronunciare Sophie#1234567+?