In questi giorni infuria il dibattito sulla supremazia del made in Italy rispetto all'Italian concept, cioè ideato in Italia, ma realizzato all'estero. Lei da che parte sta?
Dalla parte del made in Italy e basta. Il resto è un'ipocrisia. Per un semplice motivo: il «concetto italiano» non esiste. Ogni azienda lavora oggi con manager e stilisti provenienti da tutto il mondo. Puntare solo sul presunto know-how italiano sarebbe, per i consumatori, un'ulteriore presa in giro.
E Diesel dove produce?
In Italia e all'estero. Fino a qualche anno fa producevamo il 65% delle collezioni oltre confine, tra l'Asia e il Nord Africa. Poi, nel 2003, c'è stato il cambio di rotta. Per valorizzare il made in Italy abbiamo deciso di riportarne parte in Italia. L'obiettivo è capovolgere la situazione, con un 65% prodotto in Italia. Vogliamo posizionarci nella fascia premium, il cosiddetto prét-à-porter del casual, e tagliare definitivamente i ponti con le grandi catene verticalizzate.
E il fronte retail?
In pochi anni abbiamo dimezzato i multimarca, portandoli da 10 mila a 5.500 circa. Di contro, abbiamo puntato su quelli a insegna Diesel. Oggi sono 300, di cui 190 di proprietà. Anche le location sono diventate più prestigiose, in linea con la scalata del marchio. Tra le prossime inaugurazioni ci sarà Londra, in New Bond street.
Milita nel partito pro dazista, quello cioè a favore dei limiti all'export cinese. Perché?
L'esigenza delle quote c'è, per tutelare il nostro artigianato tessile, che altrimenti ne uscirebbe con le ossa rotte, e anche per «esportare» in Cina la nostra cultura di protezioni sociali. Credo, inoltre, che solo chi non ha un marchio e si arrabatta nelle fasce entry price del mercato possa volere la sparizione delle quote. Chi difende il made in Italy, invece, non può che esserne a favore.
Estratto da Economy del 7/10/05 a cura di Pambianconews