La crisi nel distretto della seta di Como c'è e sta nei numeri. Il fatturato è in calo: nei primi nove mesi del 2003 è sceso del 7,7% in valore e del 9,1% in quantità. Gli addetti diminuiscono: negli ultimi cinque anni sono stati persi circa 3.500 posti di lavoro in un settore che ne conta 30.000, 1.800 solo nell'ultimo biennio. Ma chi si aspetta di trovare un distretto ripiegato su se stesso, sbaglia. Sulle rive del lago di Como, dove le prime fabbriche di seta risalgono al 1600, la paura del drago cinese, che si è aggiunta alla difficile congiuntura economica, ha operato un piccolo miracolo. Invece di piangere e invocare dazi, gli imprenditori lariani hanno deciso di rimboccarsi le maniche e reagire. Com'è già successo in passato, quando sembrava che la Corea e il Giappone con le nuove fibre sintetiche avrebbero strangolato il distretto di Como. «Oggi c'è un clima di caccia alle streghe e spesso la Cina diventa un alibi.
Invece dobbiamo fare leva sui nostra punti di forza», dice Claudio Taiana, amministratore delegato della Tessitura Taiana Virgilio e responsabile della sezione serica in seno all'Unione industriali. Un aiuto viene dall'euro forte, che ha neutralizzato il rincaro del prezzo della seta, schizzata tra settembre e ottobre 2003 da 15 a 22 dollari al chilo. Come Taiana la pensano in molti a Como. «La concorrenza orientale ci ha costretto a cambiare, a fare sistema per difenderci», afferma Giorgio Carcano, presidente dell'Unione industriale locale. «Abbiamo capito che nessuno di noi è più forte di tutti noi messi insieme», aggiunge Moritz Mantero, amministratore delegato dell'azienda di famiglia, una delle maggiori della zona, con 900 dipendenti. «Stiamo imparando un nuovo modo di lavorare: insieme», osserva Pier Luigi Tagliabue, amministratore delegato del Tessile di Como, il braccio operativo del distretto. è una scelta necessaria.
«A differenza di Biella, Como non ha le grandi firme come Zegna, Loro Piana o Cerruti, che arrivano direttamente sul mercato. Anche i nostri nomi importanti, come Mantero o Ratti, lavorano soprattutto per le griffe della moda. Ecco perché non conviene a nessuno muoversi in ordine sparso, adesso che il problema coinvolge tutti», dice Taiana. Inutile fare la gara costi, perché non c'è confronto. «Una cravatta cinese è venduta a 1,24 dollari, che per noi rappresenta appena il costo per confezionarla, tessuto escluso», sostiene Tagliabue. La battaglia è altrove. Oltre la qualità, che da sola non basta più.
Estratto da Corriere della Sera del 3 /01/04 a cura di Pambianconews