Miroglio? Forse ad Alba c'è ancora qualcuno che ricorda quando, in piena crisi del '29, gli agricoltori della zona si trovarono a un passo dal baratro poiché nessuno comprava più i bozzoli della seta. Intervenne Giuseppe Miroglio, allora titolare di un negozio di tessuti e biancheria, e se li comprò tutti. Fu un rischio, trovarsi i magazzini pieni di bachi. Ma fu anche un affare, poiché riuscì a pagarli un prezzo stracciato. Risultato: salvò la produzione agricola del basso Piemonte e mise le basi su cui in seguito costruì uno dei maggiori gruppi italiani del settore tessile-abbigliamento. Il cui nome non è conosciuto magari quanto quelli di imprenditori che vantano titoli nobiliari nel pedigree (per esempio, a Valdagno) o come quelli che calcano le passerelle.
A colpi di acquisizioni, il gruppo di Alba ha portato a termine anche l'ultima rivoluzione della propria quasi centenaria storia imprenditoriale: a fine 2003 dovrebbe raggiungere 650 punti vendita monomarca (con vetrina su strada), accumulati in pratica negli ultimi quattro anni, dei quali circa la metà sotto il diretto controllo del gruppo. Una rete cui vanno aggiunti i 450 corner nei department store per un migliaio di insegne (le più note: Caractère, Motivi, Oltre, Elena Mirò) che cominciano a rendere giustizia, verso il pubblico, della forza industriale di questo modello d'impresa del made in Italy. Tradotto in cifre, oggi il gruppo realizza 1 miliardo di euro di fatturato (+10% rispetto al 2002), dà lavoro a 7.500 dipendenti e produce all'anno più o meno 80 milioni di metri di tessuti, 25 milioni di metri di filati e 12-13 milioni di pezzi di abbigliamento. Sbirciando tra i conti del colosso di Alba, emerge un'immagine di grande solidità: l'indicatore della capacità di far fruttare gli investimenti (Roe) nel corso degli ultimi tre esercizi è salito dal 4,2 al 7,3% mentre quello sui guadagni dalle vendite (Ros) è passato dal 2,6 del 2000 all'8,2% del 2002. Per contro, il patrimonio netto sfiora ormai 900 milioni, con una situazione finanziaria positiva a fine 2002 per circa 200 milioni.
Una realtà che può permettersi di continuare a snobbare il mercato dei capitali. «La Borsa? Ci penseranno i nostri figli», diceva ancora pochi anni fa Franco, figlio di Giuseppe, che assieme al fratello Carlo ha mantenuto il controllo del gruppo fino al 2001, quando i due hanno diviso la proprietà tra i figli, pur riservandosi rispettivamente i ruoli di amministratore delegato e di presidente. I due fratelli hanno traghettato il gruppo attraverso la fase della crescita industriale: il boom arrivò tra gli anni 60 e 70, grazie al lancio del pronto-moda (quando il 90% delle donne si vestiva dalla sarta) con la linea Vestebene e alla prima delocalizzazione (trent'anni fa) in Tunisia.
Estratto da Finanza&Mercati del 24/09/03 a cura di Pambianconews