Una crisi strutturale, che dipende da un mercato in costante flessione da un decennio, ma anche da carenza di idee. Con queste parole Giorgio Rizzo, direttore generale di Italian Luxury Industries, mette sotto accusa il settore dell'oreficeria made in Italy. Una diagnosi che trova concordi i grandi attori del gioiello made in Italy. Non ne deriva che la terapia sia semplice, anche perché come avverte Giuseppe Corrado, presidente della sezione orafi di Assindustria Vicenza, l'apparato produttivo «è polverizzato in una miriade di aziende, inadeguate per dimensioni a reggere da sole una competizione autenticamente sempre più globale».
«Scontiamo la congiuntura negativa mondiale, dice Alessandro Biffi presidente di Federorafi, ma perdiamo anche importanti quote di mercato a favore di nazioni emergenti che hanno imparato a fare e a copiare bene, usando spesso tecnologie inventate da noi, avvantaggiate da regimi fiscali assolutamente di favore. Se a questo aggiungiamo la debolezza del dollaro, l'aumento record del prezzo dell'oro, il clima di guerra che respiriamo e l'incertezza conseguente, arriviamo a definire una fase di straordinaria delicatezza a gravità».
Non mancano, in effetti, le aziende che hanno per tempo individuato percorsi nuovi egià ne traggono beneficio. E' il caso, per esempio, di Chimento, che ha chiuso i conti del 2002 a quota 51,7 milioni di euro di fatturato, in leggera ascesa rispetto all'annata precedente. «Ma in un triennio abbiamo raddoppiato i ricavi, dice il presidente Adriano Chimento, e le nostre previsioni per il 2003 pongono un +10% nel budget. Riteniamo di avere importanti margini di crescita dei volumi edella redditività, sia per il progetto di innovazione tecnologica che stiamo applicando sia per effetto degli investimenti sul versante della distribuzione e della riconoscibilità dei marchi».
Estratto da Affari & Finanza del 20/01/03 a cura di Pambianconews