Gli indici della produzione, delle esportazioni e dei consumi da oltre un anno anchilosati; le aspettative stagionali dei punti vendita disattese per la terza volta consecutiva; la lievitazione dei prezzi (non importa se vera o presunta) che taglia i budget dei consumatori decisamente più di quanto rilevato dai dati ufficiali. L'industria tessile, abbigliamento e calzature vive un momento di recessione sulla cui gravità, tuttavia, esistono opinioni diverse. Certamente è difficile liquidare questa strana miscela di stasi dei consumi (secondo l'Istat: +0.9% in valori correnti nel primo semestre; di fatto -1.5% in termini reali), flessione della produzione (-7% tra gennaio e luglio) e delle esportazioni (-6�/0), come una semplice battuta d'arresto; ma è anche vero che le tesi più catastrofiste – quelle che parlano di incapacità strutturale del sistema ad adeguarsi al nuovo contesto competitivo – perdono di consistenza non appena i sintomi del disagio siano esaminati in una prospettiva temporale più ampia, di medio periodo. Si deve piuttosto parlare di una caduta causata dalla combinazione di fattori esterni e interni e aggravata poi dalla grave crisi internazionale – anzi, dalle crisi internazionali. Una caduta brusca ma non irreversibile: in termini assoluti, l'indice lstat della produzione industriale in base 1995=100, in questi mesi viaggia su livelli 96-97 per l'industria tessile abbigliamento (praticamente gli stessi del periodo della crisi dei mercati asiatici nel 1997/98) a 83-84 per le calzature (ma, in questo caso, già da qualche anno oscilla sotto quota 90).
Se la ritirata si ferma su queste posizioni, che peraltro vanno lette dall'alto della massa critica di attività legate alla filiera dei prodotti tessili, dell'abbigliamento, delle pelli e delle calzature, restiamo nel naturale alternarsi dei cicli congiunturali.
I numeri negativi degli indicatori che fotografano il passato e l'incertezza alimentata da scenari che continuano a rimandare l'inizio della prossima ripresa dell'economia tengono lontane le risorse di cui c'è maggiore bisogno: fiducia ed entusiasmo.
Nei prossimi mesi verrà meno, portando acqua alla ripresa, la distorsione ottica del confronto con il 2001, un anno diviso tra il primo semestre molto effervescente e il secondo decisamente opaco. In questa prima parte del 2002 molti indicatori tendenziali hanno il segno #meno' perché confrontati con le punte massime del ciclo; per la stessa ragione nei prossimi mesi, anche se i valori assoluti rimarranno stazionari, tornerà ad affacciarsi il segno #più'.
Per quanto riguarda i bilanci del 2002, i giochi sono praticamente fatti; sappiamo, come confermano i dati Istat del primo semestre, che la stagione autunno-inverno 2002/03 non è andata bene; l'unica variabile non ancora definita è il sell-out che, nonostante il clima insolitamente freddo per le medie stagionali, per il momento non spinge come dovrebbe sull'acceleratore.
Aggiornando le proprie stime, gli istituti di ricerca, le associazioni di settore e i distretti industriali concordano nel prevedere una caduta della produzione di almeno 2-3 punti percentuali in valore, e di quasi il doppio misurata in quantità. I minori ricavi da esportazioni per tutto il sistema moda italiano si possono stimare in circa 1.500 milioni di euro. Queste sono le cifre di una faccia della recessione; l'altra, quella delle tensioni sugli equilibri economici e finanziari delle imprese, si presenta più preoccupante, date le dimensioni limitate della grande maggioranza di esse a il modesto tasso medio di capitalizzazione.
La moda è una macchina complessa che non può rallentare a lungo la propria corsa; per non perdere pezzi per la strada, deve chiudere rapidamente i conti e guardare avanti. Non è ancora chiaro, tuttavia, dove inizia il sentiero della ripresa, nonostante le voci autorevoli che (rumori di guerra a parte) sostengono prossima la fine della recessione.
II sistema moda esporta il 60-65% della produzione (il 10% va in Germania, il grande malato dell'UE) e il previsto rialzo del commercio mondiale (+4.3% nel 2003, a fronte di una media per gli anni 90 praticamente doppia) non può rilanciare più di tanto le nostre produzioni.
Anche sul fronte interno non c'è da aspettarsi molto: sulla recente presentazione delle collezioni per la primavera-estate 2003 hanno pesato giacenze invendute delle passate stagioni e occorrerà ancora del tempo prima che i consumi liberino il trade dalle tossine accumulate.
II mercato non riesce a trovare un'ancora a cui aggrapparsi e le imprese non hanno sufficienti stimoli per ripartire; per il momento il convento della congiuntura non passa altro pane e l'industria tessile, abbigliamento a calzature deve rassegnarsi a attraversare un altro anno intermedio.
Tutto lascia pensare che nel corso del 2003 gli indici torneranno a risalire la china e gli orizzonti si schiariranno, ma sarà sempre un anno turbolento che richiederà nervi saldi. Non ci saranno grosse spinte dall'esterno (le borse, la ripresa del PIL, la fiducia…) e il sistema moda dovrà cercare al proprio interno l'energia per ripartire, iniziando a ripensare contenuti, organizzazioni e strumenti di comunicazione. Quando questo ciclo sarà finito, scopriremo cosa è cambiato; la ripresa, infatti, non arriverà per tutti.