La firma è stata quella di Antonio Favrin, l'amministratore delegato. La mente, quella di Pietro Marzotto. «El sior conte», come lo chiamano a Valdagno sede di Marzotto, è tornato apertamente in campo e con l'acquisto di Valentino dall'Hdp ha dato una sterzata alla società della famiglia. In un primo tempo ha bocciato, poi ha ripreso, infine ha trovato l'accordo e Valentino è passato a Marzotto. Incontri, passaggi e snodi decisivi sono stati i suoi.
Il riavvicinamento, in realtà, era iniziato quasi subito, alla morte della sorella Italia, di cui aveva preso il posto di presidente della Fondazione Marzotto. Ma soprattutto era rimasto nel consiglio di amministrazione e nel comitato esecutivo di Marzotto.
Carattere fortissimo, Pietro Marzotto nel corso degli anni ha saputo tenere insieme una famiglia numerosa, sempre più ramificata e sempre meno interessata a partecipare all'impresa comune. Ed ecco Valentino. Sotto il profilo strategico, l'acquisto è perfettamente logico. Il tessile non va bene e Marzotto deve crescere nell'abbigliamento. E' fortissima in quello per l'uomo con Hugo Boss, controllata tedesca quotata (e che, essendo tedesca e quotata, appena può manifesta la sua indipendenza), mentre sta per perdere buona parte di quello femminile con la fine delle licenze di Ferrè. Un know how che sarebbe andato disperso. Dipendenti da lasciare a casa.
«Piuttosto che chiudere uno stabilimento, Pietro Marzotto si fa uccidere», dicono a Valdagno, ricordando che per arrivare alla chiusura della Lebole ad Arezzo abbia atteso anni e poi sia stato costretto a cedere. Perdere Ferrè aumenterebbe, inoltre, la dipendenza di Marzotto da Hugo Boss: oggi la società tedesca pesa per circa il 90% del risultato operativo del gruppo di Valdagno e il valore di Borsa della società italiana dipende da quello della controllata tedesca.