Lo chef inglese Ryan Clift appare sereno, ha tutte le ragioni per esserlo. Le sue quotazioni professionali salgono vertiginosamente, lo spostamento del Tippling Club dalla periferia al quartiere degli affari si è rivelato vincente, il lavoro non manca. Mi accompagna al piano superiore del ristorante che ospita una saletta riservata per eventi privati e clienti desiderosi di privacy. “Qui è difficile trovar posto, l’hanno prenotata tutte le sere fino a marzo”. Una cena con cocktail e vini in abbinamento costa l’equivalente di oltre 200 euro, ma i suoi clienti non hanno problemi di budget.
A Singapore, del resto, la concentrazione di milionari supera quella di Svizzera, Qatar e Kuwait. I numeri della città-stato, che ha poco più di cinque milioni di abitanti, parlano da soli. Il Pil cresce a un ritmo superiore al 2% annuo, con punte del +6%, sfiorando i 300 miliardi di euro, che pro-capite significa oltre 50 mila dollari (nona posizione mondiale). Il livello della ristorazione viaggia di pari passo.
Nella classifica 2014 dei 50 Best Restaurant dell’Asia sponsorizzata da San Pellegrino, ben otto posizioni sono occupate da ristoranti di Singapore, che contende a Tokyo e Hong Kong la leadership tra le città orientali paradiso dei gourmet. Il Tippling Club è la rivelazione dell’anno, new entry al ventitreesimo posto. Più su, nella top ten (sesta posizione assoluta), c’è colui che viene considerato il miglior chef di Singapore, Andrè Chiang (Restaurant Andrè). A seguire, ecco i nomi da tener d’occhio: Tetsuya Wakuda (Waku Ghin, nel celeberrimo hotel Marina Bay Sands), Masahiro Isono (Iggy’s), Sebastien Lepinoy (Les Amis), Julien Royer (Jaan) e altri ancora.
La crescita pare abbia fatto alzare le antenne in casa Michelin, se sono veri i rumors che danno per imminente l’arrivo nell’ex colonia britannica degli ispettori della “guida rossa”, che oggi in Asia presenta soltanto le pubblicazioni dedicate a Tokyo e Hong Kong + Macao. Il 2015, o più probabilmente il 2016, potrebbe essere l’anno della prima attribuzione di “stelle” a Singapore. Cosa accomuna questi master chef? Esiste una specificità territoriale nella cucina proposta all’ombra dei grattacieli della finanza asiatica? Simili domande richiedono risposte articolate.
Singapore può apparire, a chi vi si reca per la prima volta, come una sorta di Londra inserita in un contesto tropicale, isola occidentale creata artificialmente nel bel mezzo del mare d’oriente. Bollata come “città senz’anima” (e se mai l’avesse avuta, di certo se la sarebbe venduta al demonio degli affari), raccoglie in realtà tutte le anime del mondo. Essere un melting pot di razze, idee e aspirazioni finisce per costituirne l’autentico Dna, teso al confronto e a cogliere le opportunità che offre il suo caleidoscopio etnico. Per questo motivo Andrè Chiang, nativo di Taiwan ma francese d’adozione, scelse Singapore nel momento in cui, era il 2010, decise di tornare in Asia per realizzare la propria ambizione: esprimere se stesso nella professione di chef.
“Volevo un luogo che mi permettesse di essere creativo senza dovermi necessariamente conformare a un orientamento locale. Qui la gente ha una very wide palette, una tavolozza molto ampia di gusti e sapori. In più, per quanto fosse internazionale e cosmopolita, Singapore all’epoca era priva di ristoranti rappresentativi e quindi avrei avuto spazio per emergere. Oggi alcuni dei miei clienti prendono un aereo da Tokyo o Hong Kong, assaggiano i piatti e poi se ne tornano a casa il giorno stesso”. La squadra di Andrè è formata da sedici persone di tredici differenti nazionalità; la clientela è 50% locale, tra nativi di Singapore e stranieri che lavorano in città, e 50% internazionale, suddivisa in parti eguali tra asiatici e occidentali, con una componente significativa di gourmet nordeuropei.
La propria espressione, Chiang, l’ha individuata in una cucina senza ricette prestabilite e che si fonda su otto elementi (sale, struttura, unicità, memoria, artigianalità, sud, purezza e terroir), ciascuno dei quali compone gli aspetti diversi di un perfetto viaggio nel mondo del gusto: l’ha denominata Octaphilosophy, con tanto di marchio registrato. “Non so cosa preparerò domani… dipende dalle materie prime che mi verranno consegnate”. Tutto arriva da fuori, perché Singapore non è certo il posto ideale per coltivare gli orti (“Qui crescono soltanto i grattacieli” ironizza). Per rimediare, poco più di un anno fa, lo chef ha avviato una fattoria (denominata Racines) nella “sua” Taiwan, che gli consegna quattro volte alla settimana un carico di ortaggi coltivati con metodo biologico.
Ryan Clift è giunto a Singapore dopo aver lavorato in Gran Bretagna e in Australia con chef del calibro di Marco-Pierre White, Peter Gordon e Raymond Capalbi. “Questa città – afferma – è una delle più sicure, pulite, organizzate ed efficienti in cui io abbia vissuto. È disegnata per le persone che ci lavorano, costruita per fare business. Qui tutto è apprezzato e accettato. La gente non vede l’ora di provare le novità e, se pensa che il tuo prodotto sia buono, continuerà a provarlo giorno dopo giorno”. La sua cucina si distingue per la capacità di sdrammatizzare, e ben venga in un contesto così (inutilmente) ‘serioso’ come quello dell’alta ristorazione. Pranzando al Tippling Club vi capiterà di osservare piatti presentati come giocattoli o di gustare intermezzi serviti in provette da laboratorio. “Funny emotions!” le definisce Clift, che però, quando tratta ingredienti preziosi o d’importazione giapponese, si fa rigoroso.
“Talvolta non vogliamo prenderci troppo sul serio – spiega – ma c’è sempre un tono di estrema eleganza in ciò che facciamo. Gli standard sono alti, perché in fin dei conti utilizziamo alcuni tra i migliori ingredienti che esistono al mondo”. Detesta l’idea del ristorante snob e pertanto ha costruito il nuovo Tippling Club a sua immagine e somiglianza: un posto ‘all’inglese’, dove mangiar bene e poter al tempo stesso divertirsi senza imbarazzi. Un locale, al limite, da scegliere semplicemente per gustare un cocktail. E che cocktail! Molti dei piatti di Clift sono studiati appositamente per essere abbinati alle invenzioni del suo barman e anche questa, in fin dei conti, può essere considerata parte della “dining experience” di Singapore. “È ben difficile accompagnare un piatto a un vino – dice lo chef – proprio perché il vino arriva da Paesi lontani e rispecchia altri gusti o un terroir che certamente a Singapore non esiste. Abbinandolo invece a un cocktail, otterrai infinite possibilità di espressione”. Perché se è vero che gli ingredienti del cocktail arrivano da lontano, al pari del vino, è altrettanto vero che, mixati in maniera originale, danno vita a qualcosa di nuovo. Come il cibo. Come Singapore.