“Abbiamo visto la stretta” ha detto il presidente di Richemont Johann Rupert durante l’assemblea annuale della società a Ginevra. La contrazione a cui allude Rupert è quella dei consumi ed è diventata lo spettro anche per il lusso. Il Nordamerica ha già vissuto il rallentamento. Ora le nubi grigie si stanno spostando in Cina. Il Wall Street Journal in un articolo di alcune settimane fa titolava così “Il boom della Cina è finito. Cosa viene dopo?” E sottolineava come il modello economico dell’ex Celeste Impero, che ha sollevato il Paese dalla povertà e la ha portato a essere un gigante, si sia ormai rotto. La Cina sta “annegando nel debito ed è a corto di cose da costruire”.
Non è difficile immaginare gli effetti di una “normalizzazione” cinese. Proprio il Paese che ha abituato il lusso a delle crescite inusuali – qualcuno può dire ‘anormali’ – rispetto a quanto siamo abituati in Occidente, potrebbe paradossalmente far cadere il lusso dall’Olimpo dorato dei comparti anticiclici alla realtà dei ‘mortali’, alle prese con il contesto macroeconomico e consumatori che diventano più conservatori nelle dinamiche di acquisto. Ma il lusso, per sua caratteristica, non è un settore immobile alle trasformazioni in fieri. E, senza fermarsi a leccarsi le ferite prima del tempo, si è già mosso in un’altra direzione: la concentrazione e quindi la crescita dimensionale.
La moda deve ragionare sulla base di un mercato necessariamente globale ed essere sempre meno dipendente da un singolo bacino. Si è visto con la Russia, con la Cina, poi con gli Usa e di nuovo con il Dragone. Perciò, se la partita va giocata sulla dimensione mondo, serve una massa critica sufficientemente grande. L’esempio su tutti è quello dei colossi francesi, con numeri importanti, una distribuzione bilanciata e un mix coerente di marchi controllati.
Va letto anche da questo punto di vista il fenomeno di acquisizioni tra i grandi gruppi del settore moda, basti pensare al caso di Capri Holdings appena rilevata da Tapestry per creare un maxi polo del premium focalizzato nel mercato nordamericano, a Kering che ha acquisito il 30% di Valentino e il brand Creed nella cosmetica, in modo da aumentare anche la diversificazione di settore. Senza dover scomodare la sfera di cristallo, è chiaro che la cosiddetta ‘normalizzazione’ dei consumi non farà che incentivare questa tendenza e ci si dovrà aspettare una moltiplicazione delle operazioni di aggregazione nei prossimi mesi. Una evoluzione del paradigma dei gruppi di fronte alla quale anche l’Italia dovrà trovarsi preparata.