La sostenibilità allunga la filiera. O meglio, allunga il ciclo di vita del prodotto. L’impatto delle aziende non si misura solo a monte, laddove si discute di materiali certificati, di cicli produttivi a basso impatto ambientale e di gestione dei rifiuti. Ma anche a valle, quando il prodotto, arrivato in negozio, è pronto per la vendita. A questo punto, gli scenari che si presentano sono molteplici. Da un lato, il capo può essere acquistato, utilizzato e poi smaltito direttamente dal consumatore, cui, in certi casi, vengono offerte valide opzioni direttamente dai brand (vedi Burberry e H&M). Dall’altro, invece, c’è il rischio che alcuni prodotti non entrino mai in commercio, diventando così parte di quell’invenduto che le aziende hanno l’onere di gestire. Spesso anche drasticamente, ovvero distruggendolo, così da evitare che i prodotti finiscano sui circuiti del parallelo e per non perdere esclusività (un discorso che vale soprattutto per i brand del lusso). Come risolvere questo enorme paradosso? In Francia, per esempio, è sceso in campo niente meno che il Governo.
La Francia della ‘Loi Anti Gaspillage’
Nelle scorse settimane, infatti, il Senato francese ha approvato un proposta di legge governativa, la ‘Loi Anti Gaspillage’, ovvero la normativa anti-sprechi, così da favorire un’economia circolare. Nello specifico, la legge, presentata il 24 settembre in prima lettura (sarà poi esaminata dall’Assemblée nationale e approvata entro fine anno), si focalizza su quattro punti fondamentali che spaziano dal fermare gli sprechi per preservare le risorse, alla mobilitazione degli industriali per sviluppare nuovi metodi di produzione, dall’informare i cittadini così da farli consumare meglio, fino alla raccolta dei rifiuti. In questo senso, pertanto, la legge proibisce la distruzione dei prodotti invenduti, i quali dovranno essere riutilizzati o riciclati. Tra le ‘vittime’ della Loi Anti Gaspillage, la moda è un bersaglio grosso. Come riporta il documento ‘Loi anti-gaspillage pour une économie circulaire’, infatti, il divieto coinvolge anche i prodotti tessili, dei quali, si legge, vengono distrutte ogni anno in Francia tra le 10.000 e le 20.000 tonnellate. Pertanto il divieto di eliminazione va a rivolgersi anche a produttori, distributori e piattaforme online, anche appartenenti al settore del lusso. L’aspetto più nuovo è che nel mirino, oltre ai prodotti che rimangono in magazzino, ci sono anche quelli rimasti in vetrina o sugli scaffali. Non potranno essere distrutti, ma dovranno essere donati in beneficienza o riciclati. In questo modo si attenua l’impatto ambientale di una delle industrie più inquinanti al mondo.
Burberry, il caso
Il mondo della moda, negli ultimi anni, ha fatto parecchio discutere per via della pratica diffusa di distruggere l’invenduto. Tra i casi più eclatanti c’è quello di Burberry. “Il costo dei prodotti finiti fisicamente distrutti nell’anno è stato di 28,6 milioni di sterline (circa 33,2 milioni di euro), inclusi 10,4 milioni di sterline per prodotti dell’inventario beauty”. Questo recitava il bilancio 2018 della griffe britannica. Un dato, e una pratica, che il brand, sotto la guida dell’amministratore delegato Marco Gobbetti, si è proposto di correggere, annunciando pubblicamente lo stop alla distruzione dei prodotti invenduti. Ma non solo. Nelle scorse settimane Burberry ha annunciato un ulteriore passo avanti verso l’economia circolare. La casa di moda ha infatti stipulato un accordo con The RealReal, il colosso americano del re-selling, per sviluppare un programma pilota che offrirà un ‘premio’ alle persone che vendono capi della maison su The RealReal. Burberry, pertanto, non venderà direttamente i suoi prodotti tramite il sito, ma premierà i clienti che lo fanno: chi usufruirà della piattaforma otterrà, infatti, un incentivo per nuovi acquisti in 18 punti vendita americani di Burberry. “Speriamo non solo di sostenere un futuro più circolare, ma di incoraggiare i consumatori a prendere in considerazione tutte le opzioni a loro disposizione quando stanno cercando di rinnovare i loro guardaroba”, ha commentato Pam Batty, vice president della corporate responsibility di Burberry.
Circolarità tra lusso e fast fashion
Un passo simile a quello di Burberry lo ha fatto anche Farfetch che ha dato il via a un progetto sperimentale dedicato ai clienti inglesi. Gli utenti potranno richiedere un sacchetto in cui inserire i propri articoli affidandoli alla logistica di Thrift+, startup specializzata nelle donazioni di prodotti usati, che si occuperà di fotografare, prezzare, catalogare e vendere indumenti e accessori. Un terzo del ricavato della vendita di ciascun articolo verrà devoluto a un’organizzazione benefica scelta dal donatore, un terzo andrà a Thrift+ e il rimante si tramuterà in un credito spendibile su Farfetch. In questo modo, “quando qualcuno ha acquistato qualcosa, magari proprio da noi, con coscienza poi può rivederlo o donarlo”, ha spiegato a Vogue Business Thomas Berry, direttore della sostenibilità di Farfetch. Un altro esempio arriva dal fast fashion. Tra i casi più popolari c’è quello di H&M. Il gruppo si è lanciato nel business second-hand attraverso il suo brand & Other Stories, sul cui sito vengono proposti i prodotti dell’insegna ai clienti svedesi i quali vengono poi reindirizzati su Sellpy, realtà specializzata nella vendita di capi di seconda mano. Proprio di questa piattaforma, H&M è oggi proprietario di maggioranza, con una partecipazione di circa il 70 per cento.
di Sabrina Nunziata