Oltre alla paura per i nuovi focolai della variante Delta il Dragone deve fare i conti con la crisi energetica, la bolla immobiliare e lo spettro delle tasse sui beni inquinanti.
Chi scommetteva sulla volata della Cina e sulla sua funzione da locomotiva del mondo inizia a farsi qualche domanda. Certo, l’ex Celeste Impero resta la motrice dell’economia mondiale e, di conseguenza, anche dell’intero sistema moda occidentale, per il quale c’è una innata passione da parte dei cinesi. Ma il percorso di pieno recupero della normalità e dei livelli di shopping pre-Covid in Cina resta accidentato, forse più di quanto non lo sia in altre aree del pianeta. I primi segnali sono arrivati quest’estate quando sono tornati a farsi sentire alcuni (seppur limitati) allarmi per il Covid e il timore di nuovi focolai legati alle varianti in circolazione. Secondo i dati diffusi dal National Bureau of Statistics (Nbs), ad agosto le vendite al dettaglio nell’ex Celeste Impero si sono attestate a 3,44 trilioni di yuan (464 milioni di euro), in aumento del 2,5% su base annua, in calo di 6 punti percentuali rispetto alla crescita dell’8,5% di luglio. La previsione di consenso per le vendite al dettaglio era del 7% su base annua. Tra i settori più penalizzati dal rallentamento delle dinamiche di shopping dei cinesi c’è proprio la moda. Secondo i dati Nbs, il macro settore ‘indumenti, calzature, cappelli, maglieria’ ha registrato un calo del 6% ad agosto anno su anno, totalizzando uno dei risultati peggiori insieme al settore della automobili e della telefonia. “Sebbene permangano fattori incerti – si legge nella nota dell’istituto cinese – dati gli ultimi focolai di Covid-19, le condizioni favorevoli aiuteranno a sostenere una crescita stabile dei consumi e una ripresa economica per il resto dell’anno, hanno osservato funzionari e analisti cinesi”.
Le previsioni sull’andamento del mercato cinese non sono, in realtà, così funeste perché molti addetti al settore prevedono un ritorno alla normalità sul fronte shopping con le festività invernali. Resta, però, la conferma dell’instabilità del mercato cinese. Un
elemento non da poco visto il peso che l’ex Celeste Impero ha nelle esportazioni mondiali di prodotti moda e nella distribuzione sia offline sia online. La cartina al tornasole della discontinuità cinese va cercata nei dati sulle vendite della prima settimana di ottobre, una delle prime festività in calendario. Nella settimana dall’1 al 7 ottobre, periodo nel quale i cinesi tradizionalmente celebrano la loro festa nazionale, secondo i media locali, gli acquisti si sono concentrati sul mercato interno facendo la fortuna di Hainan, il paradiso asiatico del duty-free. Le nove insegne esentasse dell’isola meridionale cinese, che ormai ha raccolto il timone da Hong Kong, hanno sfiorato gli 1,64 miliardi di yuan (circa 218 milioni di euro), in aumento del 75% rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente e ben quattro volte superiore, con un salto del 359%, sul 2019 pre-pandemia. Chi ha viaggiato, in sostanza, si è spostato verso questa meta prediletta per il duty free, a discapito delle altre mete turistiche cinesi. La prima settimana di ottobre, infatti, in Cina ci sono stati circa il 70% in meno di spostamenti rispetto al 2019 e l’1,5% se confrontati con il 2020. E, di conseguenza, anche le entrate legate al turismo sono drasticamente diminuite e si sono fermate ai 389 miliardi di yuan (circa 52 miliardi di euro), pari a circa al 60% di quanto raggiunto nel 2019 e con un calo del 4,7% su base annua. Tuttavia le ultime stime sul mercato del travel retail continuano a riportare la Cina al centro della strategia di rilancio. Se le vendite duty free tornaranno a crescere, sarà sostanzialmente merito dell’aumento del flusso turistico negli aeroporti cinesi. Secondo le stime della società di consulenza Oliver Wyman, solo nella seconda metà del 2023 i cinesi torneranno a viaggiare all’estero. con un conseguente ritorno, sempre secondo le proiezioni degli analisti, del business del travel retail in tutto il mondo.
AUTARCHIA E CLIMA NELL’AGENDA CINESE
Per ora, dunque, si guarda alla Cina e ai flussi interni al Paese. Ma le incognite nei confronti dell’ex Celeste Impero, anziché diminuire, aumentano di giorno in giorno, facendo tremare il mondo del lusso e non solo. A ottobre il National Bureau of Statistic ha diramato i nuovi dati sul Pil. Ebbene, nel periodo tra luglio e settembre l’economia cinese ha continuato a crescere, ma con un passo più lento del previsto: ‘solo’ del 4,9% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, in calo però se confrontato con il +7,9% registrato nel secondo trimestre e leggermente al di sotto del +5,2% atteso dagli analisti. Il rallentamento, notano molti analisti, è in gran parte dovuto al tentativo di Pechino di ridurre i rischi finanziari, diminuendo il ritmo dei prestiti al settore immobiliare, che pesa quasi un terzo del Pil del Paese e che ha rischiato di scoppiare sotto il peso della bolla Evergrande, il gigante del real estate schiacciato da un debito monstre di 309 miliardi di dollari, e finito a un passo dalla bancarotta. Intanto il Paese sta facendo i conti anche con una nuova autarchia annunciata quest’estate nel solco di una ‘prosperità comune’ che potrebbe portare a un inasprimento delle tasse per le classi più agiate, nell’ottica di un ridimensionamento della disparità sociale. Non è tutto. La Cina si sta preparando anche ad una stretta sul fronte delle emissioni inquinanti, una misura che sicuramente farà sentire il suo peso anche nei confronti del mondo del lusso. Secondo gli analisti di China International Corp, il sistema di tassazione dei consumi, anticipato appunto dal presidente Xi Jingping quest’estate, comporterà con ogni probabilità anche un aumento delle tariffe sui beni di lusso e sui prodotti la cui produzione prevede grandi quantititativi di energia o genera un inquinamento significativo. Il motivo di una misura così radicale nel solco della lotta contro i cambiamenti climatici è da ricercare anche nella grave crisi energetica che sta attanagliando il nord est del Paese, un’area che genera il 66% del prodotto interno lordo cinese e dove numerose fabbriche sono state costrette a interrompere la produzione per evitare di superare i limiti del consumo energetico imposti dal governo centrale per promuovere l’efficienza.