Amati, studiati e molto spesso criticati. I content creator, grazie allo strapotere dei social media, negli anni si sono fatti sempre più strada, arrivando a costruire le basi di un mercato da miliardi di euro.
Figli della rivoluzione digitale gli ‘allora solo influencer’ hanno iniziato dal 2017 ad affermarsi come un vero e proprio fenomeno mediatico, cresciuto nel tempo sullo schermo dello smartphone a colpi di swipe-up, like, storie Instagram e contenuti brandizzati. Un fenomeno denominato ufficialmente influencer marketing che è stato inizialmente mal visto dalla moda della ‘vecchia guardia’, ma che è esploso fino a creare un florido mercato. Per dare qualche numero, nel 2022 i guadagni dei soli content creator italiani sono complessivamente aumentati del 10% rispetto all’anno precedente, toccando la soglia dei 308 milioni di euro (mentre nel mondo la somma raggiunge i 16,4 miliardi).
A renderlo noto è un report di DeRev, società di strategia e comunicazione digitale, che stima inoltre come il 2023 dovrebbe far registrare un ulteriore aumento del 13%, pari a un giro d’affari di 348 milioni di euro. Nel 2021 i content creator in Italia avevano invece mosso un turnover di 280 milioni, sottolineando il valore del business e rimarcando l’importanza di una figura professionale spesso ignorata dalla stampa di settore ma dal potenziale enorme.
“In questo mercato le opportunità sono ancora moltissime. D’altronde gli smartphone sono il mezzo di comunicazione più utilizzato al mondo, e quindi anche il modo più facile e veloce per arrivare in maniera capillare al pubblico”, spiega Enrico De Finis, global director di Bold Management, agenzia di talent con sede a Milano ed uffici a Parigi e Dubai. “È ovvio quindi che una comunicazione corretta, realmente efficace e adatta al mondo social, quindi veloce e accattivante, può ancora incidere in maniera importante. Nella moda, nello specifico, i margini di crescita restano forse più ampi di ieri. Creatività, inventiva, originalità ed una mirata selezione di prodotti, rispondono alle rinnovate esigenze del mercato”.
Da un punto di vista di settori, il mercato risulta ancora guidato dal fashion & beauty (passato dal 15% del 2022 al 25% del 2023), ma continuano a ricorrere all’influencer marketing anche i brand che lavorano nel gaming (12,9%) e nel travel & lifestyle (12,5 per cento). In questo 2023 spicca anche il considerevole aumento dello sport (dal 4% al 12%) e la contrazione nel settore health & fitness (dal 13% al 6,8 per cento).
La genesi e l’evoluzione
Se si parla di influencer è impossibile non pensare istintivamente a Chiara Ferragni, che nonostante ormai venga considerata come una celebrity, è stata la prima a intuire questo nuovo linguaggio, inventando, di fatto, un mercato che prima di lei ancora non esisteva. Ma se Ferragni rappresenta il primo esempio di questa nuova figura professionale, come è nato nello specifico il fenomeno e che cambiamenti ha subito nel tempo?
“Quelli che prima erano i blogger, poi chiamati influencer e fino ad oggi digital talent, sono tutti, in realtà da sempre, content creator, in quanto producono contenuti fotografici, video e testi”, spiega De Finis. “Oggi la figura del content creator è sofisticata, e anche il contenuto è studiato attentamente. È stato il passaggio da quelli che erano contenuti spontanei pubblicati sui social, alla realizzazione di contenuti sofisticati – che però al contempo devono comunque mantenere un’idea di naturalezza -, il fattore che ha permesso che questo diventasse un lavoro e un business enorme”.
Nel panorama moda di oggi i content creator sono ovunque, dalle sfilate alle campagne adv, e sono ricercati proprio dai fashion brand, che nel dividere le proprie risorse tra carta, online e social, investono ad ampio raggio, tra micro e marco influencer, a seconda delle necessità. “Le figure richieste sono molteplici. Dipende davvero da quello che è l’obiettivo della campagna e del marchio – continua il manager. Servono i digital talent, che restano comunque gli esperti nel comunicare prodotti sui social. Servono le celebrities per dare un allure più istituzionale. Occorrono anche i micro influencer per parlare in maniera più vicina al pubblico. E sono necessari infine anche i content creator che svolgono contemporaneamente altre professioni (per esempio avvocato, fotografo e altri ancora) per comunicare ad un pubblico che esca dal contesto moda. Nello specifico, le partnership avvengono in maniera piuttosto semplice: il brand contatta il talent, o l’agenzia a cui si affida, proponendo un progetto di comunicazione. Si vede il prodotto, se piace ed è in linea con il talent si passa allora ad una negoziazione dove vengono definite le attività (quindi i canali, quanti post e svariati aspetti). Successivamente, viene condiviso e approvato un brief e si discutono i diritti adv. Dopodiché, si passa alla parte legale e poi alla realizzazione delle attività concordate”.
C’è social e social
I compensi degli influencer non sono tutti uguali, anzi, variano notevolmente e si diversificano a seconda delle piattaforme social, in quanto la creator economy si è fatta più matura e mostra ormai segnali di adattamento alle dinamiche dei singoli social media. Secondo lo studio di DeRev non tutte le piattaforme segnano un incremento. Il report, ad esempio, evidenzia un’ulteriore caduta di Facebook (-13,6%), dopo un primo crollo registrato già lo scorso anno (-35% del valore rispetto al 2021), mentre Instagram (+8,6%) si afferma come piattaforma di riferimento, accanto a YouTube che, pur pagando più di qualsiasi altro social (i cachet possono raggiungere anche gli 80mila euro per una celebrity), affronta la sua prima battuta di arresto facendo registrare una stabilizzazione dei guadagni dei creator. Nel mezzo, TikTok che, se pure mostra un andamento negativo dei compensi degli influencer (-2%), è in realtà andato incontro a una razionalizzazione ben fondata: a scendere sono infatti i piccoli creator, aumentati fortemente di numero, mentre salgono i compensi di quelli con un numero maggiore di follower.
“Instagram e TikTok sono i social su cui lavoriamo principalmente”, afferma De Finis. “Youtube poco, anche se funziona molto bene. Snapchat è usato tanto nel Middle East. Quanto alle dinamiche di crescita, sono in costante cambiamento. Instagram, ad esempio, predilige i reel ma questo non significa che vadano bene per tutti i profili. TikTok ti dà possibilità di avere milioni di visualizzazioni, ma sulla crescita dei follower è più complesso, anche se seguire i trend rimane comunque la chiave”. Una volta compreso il canale bisogna però successivamente interfacciarsi anche con la regolamentazione, che spesso varia in base ai mercati dove si opera. In Italia esiste l’obbligo di dichiarare #ad dove c’è la regolamentazione, un contratto e un compenso economico. Se invece è un regalo, se non taggato o menzionato, non serve scrivere nulla. “Nel caso in cui sia taggato – precisa De Finis – bisognerebbe invece inserire #giftedby o #suppliedby nel contenuto. Sono codici di lettura necessari perché di fatto manca una uniforme legislazione in materia tra i mercati esteri”.
La percezione
Essendo quello dei digital talent un lavoro ‘pubblico’, le loro attività e i loro contenuti sono fruiti da migliaia di utenti online, che molto spesso ne giudicano ogni aspetto, commentando un post oppure rispondendo a lora volta con altri contenuti. Il ‘tranello’ in cui incappano spesso però molti content creator è l’esporsi con considerazioni personali su temi che non li riguardano da vicino o che non interessano il settore in cui operano. E il lato negativo di questo aspetto della professione è che in molti casi gli influencer sono successivamente sottoposti alla gogna mediatica per ogni singolo errore o parola di troppo, fomentando un sistema di critica, non propriamente caratterizzata da termini ‘costruttivi’ anche se corretta, che va a ledere la persona dietro lo schermo o alle volte mette in un dubbio il senso – o quantomeno i confini – della professione stessa. “Il problema alla base è che, banalmente, per alcuni questo resta un non-mestiere. Si fa fatica a dare una professionalità ‘canonica’. Nella mia esperienza lavorativa ormai decennale ho potuto constatare che è importante avere buon senso da parte delle agenzie e dei brand nel cogliere il vero talento. Evidentemente è il criterio della scelta che presiede ad un buon risultato. Ciò detto, il content creator è una professione. Il mito che va sfatato è che sia un lavoro duro. È un lavoro impegnativo ma bello”, sottolinea De Finis. “È in ogni caso un lavoro non per tutti. Le persone vedono solo una foto o un video su un telefono. Non colgono la complessità della macchina organizzativa: fotografo, stylist, location, makeup artist, agenzie (quindi negoziazione), logistica e contratti. Dietro il singolo contenuto c’è una macchina importante, che corre e che ha fatto sì che questo da un gioco diventasse anche un enorme business e un grandissimo mezzo di comunicazione, oltre che per piacere, anche a scopo commerciale”.