Annunciata lo scorso settembre, l’operazione che ha portato Versace nelle mani del gruppo Michael Kors, dando vita a Capri Holdings, ha scoperto definitivamente le carte sulle strategie delle conglomerate americane del lusso. Gli attori della moda globale scesi in campo per prendersi uno dei brad più riconoscibili del made in Italy sono, infatti, diversi da quelli a cui il mercato si è abituato, ovvero i colossi francesi Lvmh e Kering, e puntano a spostare l’asse mondiale dell’alto di gamma. Il primo passo, nel 2015, è stata l’acquisizione di Stuart Weitzman da parte di Coach, che, nel 2017, ha poi ampliato la sua portata rilevando Kate Spade e presentandosi a Wall Street come Tapestry. Due mesi dopo, Michael Kors ha ‘risposto’ aggiudicandosi Jimmy Choo per quasi 900 milioni di sterline (1 miliardo di euro), convinto delle potenzialità del marchio londinese di scarpe e accessori, famoso tra le celebrities. Guardano da sempre al lusso, inoltre, anche le ambizioni di Calvin Klein e Tommy Hilfiger, in orbita al gruppo Pvh, che, in modi diversi, provano a uscire dalla definizione di apparel company.
NASCE CAPRI HOLDINGS
Perché questi gruppi possano rivaleggiare con Lvmh e Kering ci vorrà del tempo (i due giganti parigini, del resto, hanno costruito la loro leadership nel settore lusso in oltre 20 anni), eppure gli obiettivi di Capri Holdings, che tra gli americani appare ora lo sfidante più quotato, sono già fissati. Lo stesso cambio di nome svela un tentativo di riposizionamento: ispirato alla leggendaria isola, riconosciuta come destinazione glamour e di lusso, il nome Capri guarda a un “heritage senza tempo”.
LA ‘SCOMMESSA’ VERSACE
Lo scorso novembre, in occasione della presentazione dei dati relativi al secondo trimestre 2019 del gruppo, il presidente e CEO John Idol si è dichiarato ottimista per quanto riguarda Versace, le cui vendite dovrebbero salire a 1,2 miliardi nel 2022 (+50% nell’arco di quattro anni) e, nel lungo periodo, a 2 miliardi. La crescita della maison della Medusa passerà da un incremento dei punti vendita, che dagli attuali 220 dovrebbero diventare 250 a fine 2022, con un target ultimo di 300 negozi. Idol ha inoltre confermato l’obiettivo futuro di 8 miliardi di dollari di ricavi per l’interno gruppo Capri (+33% dagli attuali 6 miliardi). A caratterizzare questo nuovo player è il portfolio variegato, dove convivono Michael Kors e il suo “lusso accessibile”, Jimmy Choo, che ha dalla sua una solida brand equity nel segmento specifico del luxury footwear, e il made in Italy della maison della Medusa. Le tre aziende, spiega Business of Fashion, sono inoltre “founder-led”, ovvero ancora legate ai loro fondatori: Michael Kors, Sandra Choi (nipote di Jimmy Choo) e Donatella Versace sono infatti saldamente al timone dei tre uffici stile. “Abbiamo tre armi segrete – ha commentato Idol – e non intendiamo farne a meno”.
TAPESTRY CHIAMATA A NUOVE ACQUISIZIONI
In casa Tapestry la ‘partita lusso’ passa anche dall’arrivo dell’italiano Eraldo Poletto, che dallo scorso aprile è CEO e presidente di Stuart Weitzman. La griffe fondata nell’1986 ha un posizionamento più elevato di Kate Spade o di Coach, gli altri brand del gruppo. Poletto conta circa 30 anni di esperienza nei settori del lusso e del retail. Dal 2016 al 2018 il manager è stato CEO di Salvatore Ferragamo. Per Tapestry, sostiene la stampa internazionale, la via della crescita potrebbe essere quella di nuove acquisizioni. Nel 2016, quando ancora si chiamava Coach, il Financial Times aveva parlato di un avvicinamento, ancora allo stadio di “proposte informali”, tra la società guidata da Victor Luis e Burberry. Poco dopo, fonti vicine alle aziende avevano dichiarato infondata la notizia, definendola del tutto speculativa, oltre che “non in linea” con le strategie della fashion house inglese. “Se vuole mantenere la promessa di diventare un gruppo del lusso –spiega Bloomberg-, Tapestry dovrà spendere alcuni miliardi in più e acquistare nuovi brand. Victor Luis insiste però sul fatto che, prima di rimettersi a caccia, la società deve risollevare il business di Kate Spade. Quando sarà il momento, il gruppo valuterà marchi di accessori, footwear, abbigliamento e outerwear da aggiungere alla sua offerta”.
LE APPAREL COMPANY DI PVH
Alla fine del 2017 la possibilità di nuove acquisizioni era stata associata anche al nome di Pvh, le cui operazioni, negli ultimi anni, si sono concentrate sul controllo delle attività di Calvin Klein e Tommy Hilfiger. Tracciando la road map per l’ampliamento del parterre dei marchi, Emmanuel Chirico, numero uno del gruppo di New York, aveva dichiarato: “Non vogliamo occuparci di un risanamento aziendale. Cerchiamo piuttosto un marchio consolidato, che possieda una credibilità a livello regionale unita a un potenziale di crescita e a opportunità su scala internazionale”. I brand di Pvh sono delle apparel company, marchi di abbigliamento capaci di essere trendy e di generare l’interesse del pubblico giovane con una pluralità di linee e collaborazioni speciali. Dal 2016 al 2018, ad esempio, Hilfiger ha legato la sua immagine alla partnership con la modella Gigi Hadid, ambassador e designer di quattro collezioni di successo. Il testimone è da poco passato all’attrice Zendaya, che dalla primavera estate 2019 realizzerà, insieme allo stilista, la capsule collection TommyXZendaya. Queste operazioni hanno fatto aumentare le vendite del brand e ne hanno incrementato la presenza sui social network, ma non ne hanno innalzato il posizionamento.
CK E IL MANCATO “REBRANDING DEL SECOLO”
Poteva essere infine “il più grande esperimento di re-branding nella moda Usa del 21esimo secolo”, per usare le parole di Vanessa Friedman, fashion director del New York Times, il sodalizio creativo tra Calvin Klein e Raf Simons, chiusosi a dicembre 2018 dopo solo due anni. “Calvin Klein ha deciso di perseguire una nuova strada che è differente dalla visione creativa di Raf Simons”, spiega la nota di Pvh. Nelle quattro collezioni da lui disegnate, lo stilista ex Dior ha avviato una rielaborazione personale dell’estetica Americana, mescolando fra loro riferimenti cinematografici e arte. La distanza tra la visione del designer e le esigenze del brand, più abituato a investire sul marketing di massa che sulla difesa di un’estetica di rottura, ha contribuito a un clima di impazienza. Se gli show di Raf Simons hanno ottenuto per lo più recensioni positive dagli addetti ai lavori, la performance di vendita hanno deluso le attese di Pvh. “Mentre molte categorie di prodotti hanno ottenuto buoni risultati – ha commentato Emanuel Chirico, presentando i dati del terzo trimestre d’esercizio -, siamo delusi dalla mancanza di ritorno dei nostri investimenti in Calvin Klein 205W39NYC e crediamo che alcuni dei prodotti rilanciati da Calvin Klein Jeans fossero troppo alti e non abbiano riscosso il successo che avevamo previsto”.
IL MODELLO AMERICANO
Il modello del lusso americano, se così si può chiamare, si basa da sempre su un maggiore coinvolgimento dell’off-price, con una distribuzione più ampia e price point più bassi di quelli previsti dai brand europei. “La percezione del made in Italy, ma più in generale quella dei fashion brand europei – ha spiegato a Pambianco Magazine Bruce Pask, Men’s fashion director di Bergdorf Goodman e Neiman Marcus -, è da sempre molto positiva. Parliamo di griffe che hanno uno standing elevato in termini di design e manifattura. Le collezioni sono allo stesso tempo innovative e cariche di heritage”. Pask ha spiegato come la percezione della qualità non sia cambiata nel tempo: “Di volta in volta può cambiare la visione creativa ed essere più o meno attuale. Ma la mainfattura è sempre eccellente. Made in Italy è un brand di per sè e assicura da solo determinati standard di qualià”. Negli ultimi anni Lvmh e Kering hanno sempre provveduto a sostituire i direttori creativi dei loro brand laddove questi non avessero raggiunto le aspettative di vendita. Tuttavia, in questi processi, l’heritage delle diverse griffe è sempre stato tutelato, a partire dalle strategie di pricing e dalla comunicazione dell’azienda con l’esterno. Diversamente, i brand americani dell’alto di gamma sarebbero portati alla vendita di prodotti più economici, pur di aumentare i volumi e raggiungere costantemente il mercato. A rischio, in queste politiche, c’è l’identità dei marchi. Le difficoltà di posizionamento del lusso Usa si riflettono anche nei continui mutamenti della New York Fashion Week, che oggi accorpa i suoi calendari uomo e donna e punta tutti sui pochi big rimasti (forse sul solo Tom Ford). Il sito del Council of Fashion Designers of America conferma che a giugno si svolgerà la decima edizione della Nyfw: Men’s ma, come riporta Wwd, la manifestazione potrebbe non esistere più a partire dal prossimo anno.