Negli ultimi sei anni, gli utenti che hanno digitato su Google il termine ‘sustainable fashion’ sono aumentati del 46 per cento. Il dato è indice del fatto che la moda e e le griffe internazionali sono sempre più spesso messe alle strette da quella categoria osannata dei Millennials, propensi alla spesa, ma attenti alle questioni che riguardano questo tema. Così, andando a monte della filiera, anche il tessile è stato scandagliato dalle maison, alla ricerca di chi può vantare certificazioni eco. Perché se il prodotto finito deve essere sostenibile, anche il semilavorato deve garantire gli stessi parametri. E qui arriva la sorpresa. Il tessile non solo è sostenibile, ma lo è anche da molto tempo. Sono molte le aziende italiane che hanno intrapreso scelte in questo senso e fino ad ora, hanno comunicato poco o senza grande successo questa politica green. La nobiltà di intenti della sostenibilità non è l’unico motivo che ha spinto in tempi non sospetti diverse realtà tessili italiane a investire per mettersi in regola con parametri ecologicamente corretti. Un’azienda sostenibile è, in fin dei conti, una azienda che ha un impatto minore in termini di costi energetici e di acqua. E per un settore come quello tessile, dove queste due voci hanno un peso importante in termini di costi, il risparmio non è una questione in secondo piano.
Tra i pionieri della sostenibilità tessile c’è Reda, l’unico lanificio al mondo ad essere certificato Emas, un sistema di ecogestione che prevede oltre al rispetto dei limiti imposti dalla legge anche il miglioramento continuo delle prestazioni ambientali. Dal 2004, il lanificio ha investito circa 15 milioni di euro in questo ambito. “Quando abbiamo deciso di intraprendere questa strada – racconta a Pambianco Magazine Ercole Botto Poala, AD del lanificio oltre che presidente di Milano Unica, il salone italiano del tessile – siamo partiti da un ragionamento semplice. Ci sono sempre più consumatori che vivono nel benessere e che consumano più del necessario, il che porta a un incremento dei costi delle materie prime. Abbattere i consumi invece consente maggiore competitività. Oggi, invece, si può andare oltre il discorso economico. La sostenibilità è un’opportunità incredibile perché sono i Millennilals a essere sensibili all’argomento, chiedendo prodotti tracciabili e green”. Nata quindi con un intento di risparmio (anche) per le tasche delle aziende, la sostenibilità è diventata ben presto una sorta anche di missione speciale per le imprese del settore. Lo racconta Alfonso Saibene Canepa, Supply Chain Manager del gruppo comasco che ha deciso di puntare sulla tecnologia brevettata con l’introduzione del progetto Savethewater-Kitotex, un particolare tipo di lavorazione dei tessuti che usa una sostanza di origine naturale ottenuta dalla chitina contenuta nell’esoscheletro dei crostacei per ridurre il consumo di acqua e di energia. “Nel 2008 di sostenibilità non si parlava molto, ma volevamo fare qualcosa di buono. Ci siamo imbattuti nella campagna Detox di Greenpeace”, ha spiegato. Canepa diventa la prima impresa tessile al mondo ad aderire, aprendo così un varco, seguita poi da una ventina di aziende toscane nel 2016. Oggi, Detox coinvolge in Italia una sessantina di aziende di cui una quarantina del settore tessile e filati, e alcune di queste si sono riunite in un Consorzio. Nell’arco dell’ultimo triennio si sono moltiplicati gli esempi di aziende che hanno intrapreso la strada della sostenibilità. Il lanificio Botto Giuseppe, per esempio, ha lanciato il progetto Naturalis Fibra, una serie di filati lavorati nello stabilimento di Cascami e Seta in Friuli, che utilizza solo energie sostenibili. Anche un colosso come Marzotto si è speso in prima linea nel green. Biella Manifatture Tessili, la divisione wool da 110 milioni di euro alla quale fanno capo Guabello, Fratelli Tallia di Delfino e Marlane, ha stanziato tre milioni di euro per i due stabilimenti di Mongrando e Strona, nell’ottica di un efficientamento energetico (ottenendo così la certificazione Iso 14001) e ha lanciato per l’occasione una linea ad hoc chiamata Impatto zero. Dal canto suo, anche Ratti nel 2011 ha intrapreso un percorso virtuoso che ha portato l’azienda ad ottenere alcune certificazioni ambientali (SA 8000, ISO 14001 e Oeko-Tex), a far debuttare nel 2017 la Collezione responsabile nonché a pubblicare il suo primo Bilancio di sostenibilità. Anche il cotoniero non si è tirato indietro di fronte a questa sfida. Il Gruppo Tessile Monti ha investito in modo massiccio in sostenibilità, con una politica che ha consentito di abbattere i consumi nei suoi stabilimenti in Italia e in India, e ha aderito al programma Zdhc (Zero Discharge of Hazardous Chemicals).
“La sostenibilità tessile – sottolinea Luca Belenghi, AD uscente del Gruppo Tessile Monti (e ora traghettato in Canepa) – è prima di tutto una scelta di valori e nasce anche dal rapporto con il territorio. con cui le aziende tessili hanno un rapporto molto stretto. Non è un aspetto da dimenticare”. In un contesto del genere non mancano però le criticità. Di fronte alla selva di certificazioni sostenibili esistenti, il consumatore finale (ma spesso anche l’azienda di moda che acquista i tessuti) non è sempre a conoscenze delle peculiarità di ciascuna. Ai fini comunicativi, quindi, servono? Per ora non moltissimo, fatta eccezione per alcune più di quelle più famose come Gots (Global Organic Textile Standard) o il protocollo Detox. In pratica non c’è nella moda l’equivalente dell’etichettatura biologica per il settore alimentare. Un gap che potrebbe essere colmato dal protocollo al quale stanno lavorando in modo congiunto dal 2015 Camera nazionale della moda italiana e Smi-Sistema moda Italia per elaborare degli standard comuni e che dovrebbe essere in dirittura d’arrivo.
di Milena Bello