La polemica attorno alla campagna della maison del gruppo Kering è solo l’ultimo di una serie di errori nei quali sono incorse diverse griffe del lusso e del fashion. Da Dolce & Gabbana in Cina fino a Gucci, da H&M ad American Apparel, la lista è lunga.
Sedici novembre 2022, Balenciaga pubblica la campagna Objects che, nelle intenzioni doveva mettere in risalto i gift della maison. Al centro degli scatti, firmati da Gabriele Galimberti, ci sono bambini che tengono in braccio pelouche dall’estetica bondage. In rete iniziano a circolare commenti negativi sulla scelta di associare l’infanzia a pratiche BDSM, ma è cinque giorni dopo che la situazione precipita. Il marchio del gruppo Kering, il cui fatturato 2021 ha raggiunto i 1,189 miliardi di euro, con un incremento del 44% rispetto all’esercizio precedente, svela le immagini della collaborazione con adidas per la primavera 2023. Zoomando le fotografie, interpretate da Nicole Kidman, Isabelle Huppert e Bella Hadid, su un tavolo si riconosce una pagina di una sentenza della Corte Suprema americana del 2008 sul tema tra libertà di parola e pedopornografia. Come ci si può ben aspettare, l’opinione pubblica non tarda a condannare gli scatti e l’indignazione è generale: anche Kim Kardashian, storica supporter del marchio, prende le distanze, dichiarando in un post su Twitter, datato 28 novembre, la necessità di rivalutare la sua relazione con Balenciaga.
Per avere una presa di posizione ufficiale da parte del brand e del suo direttore creativo ci vorranno altri quattro giorni e, mentre scriviamo, entrambi gli account Instagram sono stati ripuliti, tutti i post sono stati cancellati ad accezione di quello contenente il mea culpa del Presidente e CEO Cèdric Charbit e di Demna Gvasalia. Questa la cronaca più recente, tuttavia, la storia dello stile è costellata di azioni disruptive, il più delle volte realizzate ad hoc per sollevare una discussione costruttiva sui temi dell’attualità. Ciononostante, nelle ultime stagioni abbiamo assistito più a epic fail clamorose che a provocazioni artistiche. Che si parli di appropriazione culturale o di stereotipi di genere, non sono pochi i casi di comunicazione inappropriati o per lo meno insensibili alla contemporaneaità. In tempi recenti è da ricordare il caos generato da Ye (Kanye West) per le posizioni controverse del suo White Lives Matter, che hanno portato la stessa Balenciaga a prendere le distanze da lui e a cancellare ogni tipo di rapporto con il rapper. una lunga scia di errori Tra i casi più eclatanti del passato, c’è quello di Dolce & Gabbana con la sua campagna in Cina nel 2018 nel cui spot si vedeva una ragazza cinese mentre cercava invano di mangiare una pizza, degli spaghetti e perfino un cannolo siciliano con un paio di bacchette. Il cliché che doveva essere ironico non venne apprezzato dal pubblico cinese che iniziò una vera e propria azione di boicottaggio contro il brand. La stessa maison fu costretta a cancellare la sfilata che si sarebbe dovuta tenere a Shanghai. La polemica, poi, fece il giro del mondo, tanto da costringere Domenico Dolce e Stefano Gabbana a registrare un video messaggio di scuse dirette alla Cina. Gli esempi di scivoloni non si fermano qui. Celebre fu poi il caso della felpa di H&M, indossata da un bambino di colore, che recitava il claim The coolest monkey in the jungle; da Gucci con il caso del Backlava Knit, un modello che ricorda la ‘blackface’ indossata per 200 anni in America dagli attori bianchi per imitare in modo beffardo le persone nere in una rappresentazione razzista e stereotipata. Da ricordare anche la promozione SANDYSALE di American Apparel, riservatata alle persone colpite dall’uragano Sandy e realizzata proprio mentre colpiva, portando morti e distruzione, la costa orientale degli Usa.
IN CERCA DI POLITICALLY CORRECT
Sono diversi gli spunti di riflessione che casi di questo tipo fanno emergere. La prima, forse la più ovvia, ci porta a credere che alla fine, come diceva Dorian Gray, “C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé”. Le società sono disposte a tutto, anche a feedback negativi, pur di assicurarsi un riscontro mediatico importante. La seconda, è più sottile e obbliga a ragionare sulla composizione delle aziende: è possibile che all’alba del 2024, l’attenzione alla diversity sia solo un tema di marketing? Negli ultimi 20 anni, la sensibilità del pubblico è cambiata radicalmente. L’emergenza pandemica ha reso i temi dell’integrazione, dell’appartenenza e del rispetto ancora più rilevanti. Il cosiddetto politically correct, per quanto ormai estremizzato, non può più considerarsi un’opzione, bensì la regola. “È tutto molto contraddittorio”, spiega Paolo Landi, Advisor di Marketing e Comunicazione per grandi aziende, “che imprese di questo livello, dotate di tutti gli strumenti, cadano ancora in cliché e stereotipi ha del paradossale. Che la sensibilità, soprattutto tra i più giovani, sia cresciuta è sotto gli occhi di tutti a partire dai temi legati alla sostenibilità e alla lotta contro il cambiamento climatico. C’è da dire che sugli argomenti green, economia circolare in primis, le aziende hanno fatto la loro parte e garantiscono una trasparenza impensabile anche solo dieci anni fa. Sul fronte della diversity e dell’inclusione, l’impressione è che, almeno in Italia, ci sia ancora molto da fare”. Che si tratti di casi di bad advertising o di iniziative pilotate, per creare rumore su stampa e social, è chiaro che il pubblico oggi non sia più disposto a sopportare certe cadute di stile, “bisogna chiedersi perché realtà globali, con la forza comunicativa e budget stellari, non si siano rese ancora conto del loro impatto sulla coscienza collettiva”, conclude Landi. “Oggi – conclude – più che mai, qualunque merce è oggetto di conversazione e le aziende non possono ignorarlo e se lo fanno, appaiono quanto meno sprovvedute se non calcolano le reazioni, positive o negative che siano”.