Domina il mobile cheap, di produzione cinese o messicana. Obiettivi: superare il limite del wholesale e puntare con più decisione sul canale contract.
La crisi del 2008? Un lontano ricordo. Gli Stati Uniti crescono e comprano a più non posso, mobili compresi. Secondo l’analisi della “Bibbia” americana di settore, la testata specializzata Furniture Today, nel 2015 il giro d’affari retail ha superato per la prima volta la soglia dei cento miliardi di dollari e il dato sarebbe destinato ad aumentare del 4,1% nell’anno in corso, previsto oltre quota 106 miliardi. “È un mercato in continuo miglioramento e che riconosce proprio nel mercato immobiliare, complementare a quello dell’arredamento, il suo centro propulsore”, conferma da Miami Giancarlo Albano, direttore della locale agenzia Ice-Italian Trade Agency specializzata nel sistema abitare. “Gli Stati Uniti offrono alle imprese un doppio vantaggio: ritmi di crescita da mercato emergente ma volumi e condizioni operative da Paese maturo” aggiunge Albano, snocciolando le cifre del dipartimento per il commercio Usa sulle importazioni del 2015, quando l’incremento nel settore arredo ha sfiorato le due cifre, +9,5%, per un totale di 56,5 miliardi di dollari. E L’Italia? Cresce, a piccoli passi. Lo scorso anno, il valore dell’export del mobile made in Italy ha superato il miliardo, con un progresso del 5,1% sul 2014. Rispetto ai concorrenti di fascia bassa, in particolare i cinesi, non c’è competizione: stravincono loro, con una quota del 50% e un incremento annuo di oltre il 10 percento. D’altro lato, i produttori italiani non hanno rivali sul target alto e si devono guardare semmai da un altro potenziale competitor nella fascia media, i messicani, che ormai sfiorano il 20% della quota import statunitense. La sfida più complessa, per le nostre aziende, consiste nell’imporre il design italiano in un contesto che tradizionalmente premia tradizione e funzionalità, ma le cose stanno lentamente cambiando.
CONSUMATORE IN EVOLUZIONE
L’americano medio di un tempo viaggiava poco, andava in vacanza esclusivamente alle Hawaii, si disinteressava di tutto ciò che accadeva fuori dai confini federali. Nel mondo connesso di oggi, il suo livello di apertura verso l’esterno e in particolare verso i trend europei è cresciuto proporzionalmente al potere di spesa della classe abbiente: per il design italiano si aprono notevoli opportunità, con la complicità del contract. Per Molteni, gruppo da 275 milioni di ricavi, gli Stati Uniti valgono circa il 20% del fatturato complessivo, con un trend del +15% nell’anno in corso. “Cambia il gusto del consumatore, si rafforza la sua competenza”, riassume Giulia Molteni, direttrice marketing e comunicazione del gruppo che comprende le società Molteni&C, Dada, Unifor e Citterio. “Tutti dicono che è un mercato difficilissimo, ed è vero. Occorre adattare i prodotti alle loro esigenze, è il caso dei letti, e garantire un livello eccellente di customer service, dotandosi di magazzini in loco per accelerare le spedizioni. I risultati però sono evidenti e questo vale anche per Messico e Canada, nazioni in cui cresce la percezione di valore del made in Italy e dove quel che è più costoso diventa ancor più interessante”. Il resto lo fa il contract, ambito in cui Molteni ha gli Usa come prima destinazione e importanti consegne avviate nel mondo delle cucine customizzate tra Miami (Residences by Armani Casa) e New York (Moma Tower e 56 Leonard Street).
IL WHOLESALE NON AIUTA
La presenza italiana negli Usa è concentrata in aree strategiche: New York e costa orientale, Miami, California, Chicago, le dinamiche città del Texas e pochi altri terreni fertili per l’arredamento di design. L’America più profonda resta chiusa, a tratti ostile. “L’apertura ai concetti del made in Italy è evidente tra i consumatori più sofisticati, che rappresentano una sorta di iper nicchia, ma la visione dell’americano medio non è cambiata”, osserva Marco Cappellin, direttore commerciale di Moroso, che trae dagli States una quota compresa tra il 15 e il 20% del suo giro d’affari a seconda dei progetti in atto, con una crescita del 20% nell’anno in corso giudicata “confortante” perché legata al canale wholesale, dove la presenza del brand friulano è diventata più solida. Moroso ha investito sul territorio, aprendo una filiale Usa con showroom e dieci addetti a New York, a cui si aggiungono i capi area a stretto contatto con la distribuzione locale. “Il mercato è grande e richiede investimenti importanti a livello pubblicitario – continua Cappellin – ma uno dei limiti più rilevanti è l’assenza dei distributori di fascia alta: in tutto il nord America ci saranno al massimo trenta punti vendita focalizzati su prodotti come i nostri”. Quest’assenza di partner commerciali in grado di sostenere gli investimenti delle aziende fa sì che il valore del business Usa sia inferiore al suo potenziale. Mauro Marelli, marketing ed export director di Lema, individua la soluzione nell’organizzazione diretta. “I canali distributivi generalisti e di alta gamma – afferma – rappresentano sempre meno la chiave di interpretazione per comprendere e aggredire un mercato che potrebbe essere il primo sbocco per il mobile contemporaneo italiano, ma che per queste ragioni non lo è. Nella East Coast e in California ci appoggiamo alla distribuzione tradizionale, pronta ad avviare in partnership anche progetti di shop in shop, ma stiamo ora lavorando per costituire una filiale americana da cui poter dirigere le operazioni, come abbiamo fatto in Gran Bretagna, puntando alla fornitura dei multiappartamenti da cui i retailer si tengono ben distanti, rappresentando un business troppo complesso e impegnativo dal lato finanziario”.
LA FIERA? A MILANO
Non mancano, in verità, alcune realtà promettenti nel wholesale. Natuzzi, che ha una presenza e conoscenza storica del mercato (la società è quotata a Wall Street dal 1993) cita Restoration Hardware, West Elm e Design Within Reach. Contemporaneamente, il gruppo di Santeramo (Bari) porta avanti la sua politica retail con negozi monomarca, principalmente posizionati in Florida e nell’area di New York. “I prossimi investimenti saranno destinati alla California, al Texas e all’area di Chicago”, sottolinea il chief brand and sales officer Gianluca Pazzaglini. Flexform ha messo radici con due flagship a New York e San Francisco. “La nostra distribuzione, accanto ai monomarca, necessita di rivenditori specializzati nel prodotto di design: occorre specializzazione, progettualità, cultura e passione, valori che al momento si possono trovare solo in alcuni contesti, lontani dalle grandi logiche wholesale” afferma Elisa Velluto, communication manager dell’azienda di Meda. Un ulteriore problema per il mobile made in Italy è rappresentato dall’assenza di una fiera di riferimento, essendo il Market di High Point eccessivamente vocato al low cost mentre Icff di New York, orientato al mondo contract, viene considerato poco efficace. “Per anni abbiamo partecipato a High Point e Icff – racconta Alberto Bonaldo, managing director dell’omonima azienda veneta – ma oggi l’evento fieristico di riferimento per gli americani è sicuramente il Salone del Mobile di Milano, dove i più importanti clienti vengono per vedere le nuove tendenze del settore”.
di Paola Cassola