Un approccio sostenibile dell’industria della moda, dal punto di vista ambientale ed etico, potrebbe portare all’economia mondiale un beneficio di 160 miliardi di euro all’anno. Sempre più centrale il ruolo dei processi di tracciabilità
Quando, nel 2008, un certo Natoshi Sakamoto pubblicò una ricerca con cui gettò le basi del meccanismo della blockchain, di sicuro non immaginava che le sue possibili applicazioni avrebbero condizionato il mondo della moda. Fino a poco tempo fa, la blockchain era terreno di studio per appassionati di informatica e bitcoin. Ma, paradossalmente, potrebbe anche salvare le sorti della moda, avvinghiata in un circolo vizioso che, come anticipato nell’articolo precedente, richiede sempre di più la più completa tracciabilità dei capi e della produzione, sostenibilità e nuove strategie di organizzazione produttiva. La blockchain, infatti, consente di controllare la storia del prodotto lungo la filiera, nonché la prevenzione, o almeno la riduzione, del fenomeno delle contraffazioni. Le ricadute dell’applicazione di questo meccanismo attraverso microchip e tecnologie Rfid (la cosiddetta etichetta elettronica) sono uno dei fattori che, secondo gli studi legali internazionali citati da The Fashion Law, risulteranno cruciali nella moda. Il cliente può scoprire in tempo reale e con assoluta certezza se un capo di abbigliamento è autentico o un’imitazione e sapere la sua storia. Secondo molti esperti, rappresenta, inoltre, un’arma in più per tutelare, da un lato, il consumatore, e il brand stesso dall’altro, di fronte alla possibilità che alcuni stock finiscano nel cosiddetto Grey market, il mercato parallelo della vendita fuori dai circuiti tradizionali e riconosciuti dal brand. In più, le applicazioni blockchain consentono un aspetto fino ad ora poco considerato: permettono ai designer di documentare ogni fase del processo di progettazione, fornendo una prova di creazione inalterabile in caso di controversia. Questa piena tracciabilità, secondo un articolo di Forbes, è una rivoluzione rispetto al recente passato, quando la mancanza di trasparenza nella catena di approvvigionamento era ricercata dalle aziende, perché le griffe volevano mantenere la visione dei propri fornitori e produttori il più opaca possibile. Oggi, al contrario, la visibilità della catena è diventata un plus non da poco. La fashion victim interessata solo alla logica dello status symbol di un brand, è stata rimpiazzata da nuova classe di consumatori, quei Millennials e quella Generazione Z che, a costo di pagare di più il singolo capo, chiedono in cambio al brand informazioni corrette e una coerenza con gli standard etici e sostenibili del marchio. Addirittura, secondo un recente report di Pwc, la generazione nata dopo il 1980 sarebbe disponibile a pagare dal 5 al 10% in più rispetto al prezzo di listino. è ben più, quindi, di una questione di marketing: l’intero sistema del fashion è alla ricerca di una maggiore sostenibilità. Come emerge dalla ricerca A new textile economy: redisigning fashion’s future di Ellen MacArthur Foundation, la produzione di abbigliamento è quasi raddoppiata negli ultimi 15 anni e le emissioni di carbonio derivanti dalla produzione tessile sono superiori a quelle di tutte le spedizioni marittime e dei voli internazionali messi insieme. Allo stesso tempo, oltre a comprare di più, le persone indossano meno i vestiti e li tengono per periodi più brevi. Secondo lo studio, l’utilizzo medio è diminuito in genere del 36% rispetto a 15 anni fa (ma in Cina il dato arriva al 70%) e generalmente gli abiti sono poco riciclati (meno dell’1% dei tessuti prodotti per l’abbigliamento viene riutilizzato in nuovi capi). Per di più, l’industria tessile si è conquistata anche un triste primato sulla plastica: è stato stimato che circa mezzo milione di tonnellate di microfibre di plastica finiscono nell’oceano ogni anno durante il lavaggio di tessuti a base di materie plastiche come poliestere, nylon o acrilico. Si tratta anche di una (in)sostenibilità economica. Secondo lo studio Pulse of the fashion industry, report di The Global Fashion Agenda insieme a The Boston Consulting Group, un approccio sostenibile dell’industria della moda dal punto di vista ambientale ed etico potrebbe portare all’economia mondiale un beneficio di 160 miliardi di euro all’anno. Insieme alla blockchain e alla sostenibilità, l’altro elemento che con ogni probabilità cambierà il volto della moda sarà l’automazione della produzione, e con essa il nearshoring ovvero la fine della delocalizzazione, perché consentirà la produzione di piccoli lotti di prodotti in tempi rapidi. Lo rivela studio Is apparel manufacturing coming home? Nearshoring, automation, and sustainability: Establishing a demand-focused apparel value chain condotto da McKinsey secondo cui il business della moda, per i brand e per i retailer, non potrà più seguire le logiche tradizionali in Europa e Stati Uniti. “La pressione sulla redditività dovuta alla diminuzione dei volumi di vendita a prezzo pieno e le crescenti preoccupazioni riguardo all’impatto ambientale della sovrapproduzione richiedono una produzione agile in lotti di piccole dimensioni e per il rifornimento a richiesta”, spiega lo studio. Che aggiunge: “Alla luce di questi fattori, la rapidità di commercializzazione e la reattività durante la stagione sono ora più importanti che mai per il successo di un brand”. Insomma, secondo gli analisti la velocità batte il vantaggio sui costi marginali garantiti dalla delocalizzazione in Asia, e le strategie devono mettere in conto una sostenibilità a tutti i livelli. Andrà effettivamente così? Se così fosse, la moda potrebbe finalmente togliersi di dosso la tradizionale patina di superficialità per conquistare un ruolo maturo nel processo di sostenibilità mondiale.
di Milena Bello