Dallo scorso anno, il desiderio generale è stato quello di tornare alla normalità del pre-pandemia, da una parte abbandonando le tute e l’abbigliamento ‘comodo’ e dall’altra ricominciando ad uscire la sera, riempiendo così i momenti di aggregazione e vita quotidiana che a lungo avevamo messo in pausa.
“Nonostante anche prima del Covid ci sia stato un calo dell’abbigliamento formale, durante la pandemia questa decrescita è continuata in modo esponenziale”, racconta a Pambianco Magazine Antonio De Matteis, AD di Kiton e presidente di Pitti Immagine. “Ora sicuramente possiamo dire che il formale è un fenomeno in crescita, così come in parallelo non è in calo lo sportswear, ma sono ‘i momenti d’occasione’ che cambiano le necessità dei clienti. Il formale torna in auge perché è tornata l’occasione giusta per indossarlo e non c’è più quella percezione che stesse diventando vecchio o un fenomeno appartenente al passato. Ad oggi, dopo due anni dove siamo stati tutti chiusi in casa, l’uomo se ha un meeting importante preferisce certamente indossare un abito, magari anche con la cravatta”. Nel caso di Kiton infatti – come precisato da De Matteis – “il sorpasso sul pre-Covid lo si era già raggiunto nel 2021”. Lo scorso anno il luxury brand ha proseguito il trend positivo, riportando un fatturato superiore ai 160 milioni di euro, in crescita del 25% a cambi correnti rispetto al 2021. Nel 2019 invece, tenendo un confronto sul periodo pre-pandemico, il marchio aveva raggiunto i 135 milioni. Per l’anno corrente l’azienda punta a raggiungere un giro d’affari di 200 milioni, con l’Italia che attualmente ha un’incidenza del 15% sul fatturato.
A confermare l’inversione di tendenza, con un consumatore finale desideroso di tornare a indossare giacche, camicie e soprattutto abiti, è Niccolò Ricci, AD di Stefano Ricci. “Il cambio di passo risale già a un anno fa. I nostri clienti, dopo due anni di sneaker bianche, t-shirt e jeans, hanno voglia di uscire la sera e indossare un blazer assieme magari a una camicia su misura”. Il formale ad oggi rappresenta circa il 35% del fatturato dell’azienda, che nello scorso full year ha superato i 150 milioni di fatturato, esattamente in linea con il turnover del 2019 (che fu l’anno con il fatturato più alto nella storia del brand). Per il 2023 invece l’obiettivo di crescita è fissato al +30 per cento.
Tra i mercati in grado di sostenere la crescita del formalwear spiccano gli Stati Uniti, – che come precisa Ricci “continuano a crescere nonostante l’inflazione” -, e l’Europa, con l’Italia che grazie ai flussi turistici riemerge con dinamismo. Seguono Middle East e la tanto attesa Cina, al risveglio dopo le continue chiusure dovute alle restrizioni da Covid-19. “Oggi siamo ben riposizionati su tutti i mercati”, aggiunge Ricci. “Nel periodo 2020-21 e nei primi mesi del 2022 abbiamo avvertito una forte carenza dovuta alla Cina, ma da quando nel Paese sono state tolte le restrizioni (dovute alla pandemia, ndr) si è verificato un importante flusso turistico qui in Italia, oltre che maggiori spese da parte dei clienti cinesi in Cina. Un fenomeno, definito ‘revenge spending’, che stavamo aspettando da due anni e di cui raccoglieremo presto i frutti”.
Tra le strategie messe in campo dai marchi per affrontare le difficoltà rispetto al periodo pandemico, spicca sicuramente l’introduzione tempestiva dell’e-commerce. Si tratta di un canale di vendita che le aziende specializzate nel formalwear hanno tardato ad aprire, preferendogli, in alcuni casi, una distribuzione retail massiccia e mirata. L’e-commerce, però, ha indubbiamente permesso ai brand di sperimentare e di trovare alternative rispetto ai tradizionali touchpoint. “L’online è stato un investimento che sicuramente ha avuto un ritorno immediato: a maggio 2020 siamo partiti con uno showroom virtuale indirizzato al B2b e successivamente con l’e-commerce assistito. Questo mezzo ci ha permesso di entrare nelle case dei nostri clienti e di continuare a vendere i nostri prodotti”, spiega Ricci. “La chiave del successo è stata la velocità di reazione. Siamo riusciti ad essere online in meno di due mesi digitalizzando la maggior parte della collezione”.
A credere nello shopping via web è anche Pal Zileri, marchio che fa capo alla holding Mayhoola, di proprietà della famiglia reale del Qatar. “A seguito della crescita del canale negli anni scorsi, quest’anno abbiamo fatto un grosso investimento sull’e-commerce, che oggi rappresenta circa il 5-6% del nostro fatturato”, dichiara Leo Scordo, brand CEO. “Un lavoro – prosegue – su cui abbiamo voluto puntare ancorando e collegando le disponibilità dell’e-commerce a quelle del nostro retail di proprietà e del nostro magazzino, così che il cliente avesse a disposizione lo stesso assortimento, sia comprando sul nostro canale online che in negozio”.
Uno dei principali motivi che, negli ultimi anni, ha portato l’abbigliamento formale alla ribalta è stata la scoperta di un look rinnovato, il cui design si è allontanato profondamente dal concetto classico di eleganza, per tradursi in capi sempre più destrutturati.
“Il formale di oggi non è il formale del passato. Di formale abbiamo la foggia, ma sono cambiati i pesi e le costruzioni”, afferma Stefano Canali, presidente e CEO di Canali Group. “Per questo motivo, già prima del Covid avevamo fatto evolvere in maniera radicale la nostra offerta, con giacche totalmente svuotate e realizzate con tessuti sportswear. Niente più completi gessati, spalline importanti e costruzioni articolate. Un fenomeno che la pandemia ha in parte accelerato è stato il quasi annullamento della distinzione tra formale e informale. L’offerta prodotto oggi è un continuum che parte dalle occasioni di business e arriva a quelle più athleisurewear e di tempo libero, dove c’è una continua commistione di materiali impiegati. Tu oggi puoi vestire con una foggia, per giacca e pantalone, che in passato apparteneva al mondo business ma che adesso si mixa a sneaker e pantaloni drawstring”. Nel 2022 Canali ha superato i 193 milioni di fatturato, con un incremento a cambio di tassi correnti del 38 per cento, recuperando sul pre-pandemia.
Segue la stessa filosofia di cambiamento e innovazione Lardini, che sottolinea come la moda, in quanto ciclica e sommersa da trend passeggerei, debba puntare in primis su qualità e artigianalità. “Il formale oggi è stato chiaramente rivisitato. Certo, mantendo un ponte con il passato, per essere distinti la giacca deve essere ben fatta. Rispetto allo stile, se prima della pandemia il blazer era più stretto e corto, adesso stiamo ritornando agli anni ‘90, dove il focus principale è sulla comodità”, racconta Luigi Lardini, direttore creativo e co-founder del marchio omonimo. Nel 2022 Lardini ha chiuso l’anno con circa 70 milioni di euro di ricavi. Un risultato positivo che nel 2023 punta a raggiungere i 95 milioni, superando i 93 registrati nel 2019.
Ad essere cambiata è, di conseguenza, anche la percezione che si ha di un capo formale, una volta appannaggio quasi esclusivo dei ‘business men’, oggi portavoce di un look molto meno ‘impegnato’. “Se nel passato l’abbigliamento formale da uomo era molto orientato verso quello che il mondo anglosassone ha definito come il ‘power suit’, quindi l’abito che testimonia il successo, la ricchezza e il potere, oggi lo riscopriamo estremamente effortless. Un abbigliamento che dopo l’influenza dello streetwear e del casualwear vuole vestire un consumatore più giovane. Si tratta di un cliente a cui non interessa un abito rigido, con silhouette molto precise, e che determinerà quelli che probabilmente saranno i canoni dell’abbigliamento formale maschile per i prossimi 6-7 anni”, spiega Scordo. Tra i fattori che in parte hanno spinto il formale ad ‘aggiornarsi’ c’é stato infatti l’ampliamento della clientela. “Il target dei nostri clienti si è ringiovanito sia da un punto di vista anagrafico che culturale”, conclude Scordo. “Oggi noi ci indirizziamo ad un consumatore la cui età va dai 25 ai 45 anni”.
Dello stesso parere anche Stefano Canali e Antonio De Matteis, che sottolineano a loro volta lo spostamento del target ma anche la differenza che intercorre tra i vari mercati. “A livello demografico l’età media si è abbassata, e questo è anche l’effetto di una campagna comunicativa più ‘ficcante’, soprattuto dopo la pandemia, che ha consentito di creare visibilità e consapevolezza anche nei confornti di una clientela più giovane. Dai dati a nostra disposizione c’è stato un buon decremento dell’età media”, precisa Canali. Per De Matteis, l’anagrafica del cliente si è abbassata “ma nello specifico dipende anche dai Paesi. In quelli più ‘maturi’ abbiamo un range che va dai 45 ai 60, mentre in quelli più giovani, come Cina e Russia, la clientela media è più giovane”.
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