Come si trasforma, nel giro di una manciata d’anni, un brand da poco più di 500 milioni in una realtà da un miliardo e mezzo? Lo ha raccontato a Enrico Mentana, in occasione del 23° Fashion & Luxury Summit Pambianco-Deutsche Bank, Francesca Bellettini, CEO di Yves Saint Laurent. Un rilancio partito dagli “ingredienti giusti”, passato dal rebranding e da un riassetto organizzativo. Senza dimenticare la cosa più importante, ovvero la creatività libera.
Yves Saint Laurent ha saputo diventare uno dei punti trainanti del gruppo Kering. Come ha fatto?
Io sono arrivata in Saint Laurent a settembre 2013, quando l’azienda fatturava circa 580 milioni di euro con un ebit, a fine di quell’anno, del 13,8 per cento. L’anno scorso abbiamo chiuso i conti con un miliardo e mezzo di fatturato e 25% di ebit. Non si arriva a un risultato del genere se non ci sono gli ingredienti di partenza giusti fin dall’inizio, perché è assolutamente impossibile creare tutto da zero. Noi avevamo la dimensione giusta per spingere e per fare una cosiddetta rivoluzione. Siamo partiti dal chiarire il posizionamento del brand. Io sono arrivata in Saint Laurent quando il rebranding era già stato fatto qualche mese prima ed era stato di grosso valore perché si fondava sui valori storici della maison. Il nostro marchio è stato fondato nel 1961 da Yves Saint Laurent e Pierre Bergé, dopo che lo stilista era stato licenziato da Dior. E gli anni d’oro sono stati quelli dal ‘66 al ‘68, ovvero quando Yves Saint Laurent ha deciso di creare il prêt-à-porter lanciando la linea Saint Laurent Rive Gauche. Ciò che noi abbiamo fatto è stato ripescare quel preciso momento e rifocalizzare tutta l’azienda in quel senso. D’altro canto, tutto ciò che avevano fatto le persone prima di me, dagli amministratori delegati ai direttori creativi, ha reso possibile il successo di oggi, perché quando io sono arrivata il brand aveva un portafoglio prodotti estremamente bilanciato, con gli accessori molto forti, sia le borse che le scarpe, che è quello che poi ti dà la marginalità, così come il portafoglio di mercati. Era poi molto forte già su retail e wholesale. Io sono appassionata di Formula 1, e quando sono arrivata mi sembrava di essere su una Fiat 500 con il motore di una Ferrari e la scelta, con François-Henri Pinault, è stata quella di mettere la scocca della Ferrari e premere l’acceleratore. Lui fino a quel momento aveva già investito tanti soldi, ma non aveva funzionato così bene perché forse le persone si erano focalizzate più sul prodotto che sul branding.
Certo, ma come si fa a rivitalizzare un brand? Se fosse facile lo farebbero tutti. Voi avete addirittura abbattuto il marchio storico…
In quel caso abbiamo chiamato le cose con il loro nome. Noi non facevamo più haute couture, ma solo prêt-à-porter, così abbiamo chiamato l’azienda Saint Laurent Paris, perché era molto più grande e internazionale, ed è stato un segnale molto forte per far capire ciò cui ci volevamo riferire. Poi ciò che abbiamo fatto è stato cercare di portare molta chiarezza e attenzione sull’esecuzione. Penso che un CEO abbia come dovere quello di entrare in un’azienda e snodare i nodi che rendono difficile alle persone lavorare. Noi ci siamo focalizzati sulle competenze e abbiamo creato tre business unit dedicate alle tre categorie di prodotto, quindi pelletteria, scarpe e abbigliamento, ognuna delle quali gestisce il processo dallo sviluppo del prodotto all’arrivo in negozio, e tutte riportano a uno stesso CEO. Poi un’altra cosa fondamentale era mettere la creatività al centro dell’azienda, proprio come aveva fatto Pierre Bergé. Ovvero mettere in atto una strategia che fa della creatività un business, e creare una cultura aziendale di persone che accettano questo.
Per fare ciò, è un vantaggio far parte di un gruppo come Kering?
Sicuramente. Questo anche perché François-Henri Pinault è un visionario. Nonostante avesse già investito tanti soldi in Saint Laurent, quando ha capito che era il momento giusto non ha esistato a investirne ancora di più. E poi ha creato un gruppo dove ci sono sinergie, come nella logistica, nella finanza, nella gestione delle tesorerie, nell’innovazione tecnologica.
E quanto c’è in una donna, che ha un ruolo manageriale così forte, di creatività?
Io sono un manager innamorato della creatività, mi entusiasmo delle idee dei creativi e quando ne hanno una cerco di far sì che si possa realizzare. La cosa peggiore è quando il CEO vuole fare il creativo, questo non funziona. Noi non facciamo niente che la gente compra per soddisfare un desiderio materiale. Le persone acquistano un bene di lusso per soddisfare un bisogno emozionale, quindi il ruolo del direttore creativo è fondamentale perché deve riuscire a creare questa emozione e desiderio. Se noi smettiamo di fare questo non serviamo più a niente.
di Sabrina Nunziata