E' bastata la battuta di Giorgio Armani (“Vendo tutto, me ne vado”, ma non era vero) per far correre un brivido lungo la schiena di una città che è ancora convinta di essere la capitale mondiale del design e del “made in Italy”. In realtà, Milano sa benissimo che questa di capitale del buon gusto è una specie di candela che sta bruciando molto in fretta. Qualcuno più avvertito, che guarda più avanti, comincia anche a pensare che non siamo, forse, lontanissimi dalla fine.
Per rendersene conto basta aver assistito ai funerali di Gianni Versace in Duomo. Una cerimonia organizzata come nemmeno alla Casa Bianca sanno fare e con la partecipazione di tutto il mondo che conta. Era un funerale, cioè, una cerimonia triste per accompagnare un amico alla dimora finale, ma è stata anche una sorta di grande celebrazione della Milano che sapeva ancora dire al mondo come ci si doveva vestire e che cosa si poteva fare per essere non solo eleganti, ma brillanti.
Sull'altro fronte c'è Giorgio Armani. Giorgio è andato avanti per anni con una sua eleganza discreta, pochissimo colorata, lanciata da modelle quasi sconosciute. Erano anni, quelli, in cui non ci si stupiva di incontrare l'uno o l'altro sulle copertine delle riviste più famose del mondo. Gli anni fino ai Novanta, sono stati quelli in cui l'eleganza (o la moda) nel mondo erano Milano.
Oggi, tutto questo comincia a essere coperto da un po' di ruggine. La città avverte che ha già perso qualcuno dei suoi grandi eroi delle sfilate e che altri finirà per perdere, inevitabilmente. E si accorge che intorno a quell'enorme successo mondiale che sono stati gli stilisti milanesi non ha saputo costruire niente. Non un grande museo, non una grande scuola, non una grande manifestazione. Anzi, non ha saputo nemmeno costruire gli alberghi per ospitare i buyer. Insomma, è come se qui fosse passata una lunghissima stagione dell'oro senza che nessuno abbia pensato di aprire un saloon.
Estratto da Affari & Finanza del 26/02/07 a cura di Pambianconews