Nel maggio del 2015, la Commissione europea ha avviato una Sector Inquiry sull’e-commerce, così da mettere in luce le dinamiche competitive e verificare la sussistenza di eventuali violazioni del diritto di concorrenza. A due anni di distanza, e dunque nel maggio 2017, a seguito di un’analisi condotta su aziende attive principalmente nel comparto moda, abbigliamento sportivo ed elettronica, la Commissione ha pubblicato il report finale che mostra le principali criticità del commercio elettronico. Di seguito, il Focus Team Alta Gamma/Luxury dello studio legale BonelliErede, nelle persone di Francesco Anglani, partner operante nel dipartimento antitrust, nonché team leader del gruppo, e Giovanni Guglielmetti, partner nel dipartimento di proprietà intellettuale e membro del Focus Team Alta Gamma, commenta quanto risultato.
Cosa è emerso dalla Sector Inquiry?
F.A. : È emerso che numerose imprese che operano nell’e-commerce, a prescindere dai settori in cui sono attive, i quali spaziano dal largo consumo, al digitale, fino, appunto, al fashion, impongono ai loro distributori una serie di restrizioni alla rivendita che possono presentare criticità sotto il profilo della tutela della concorrenza. I produttori, infatti, per meglio controllare la distribuzione dei propri prodotti, spesso adottano strategie illecite volte a ridurre la libertà di rivendita del distributore. È il caso, per esempio, del dual pricing, ovvero il fenomeno della vendita, al medesimo rivenditore, degli stessi prodotti a prezzi diversi a seconda che questi a sua volta li rivenda online o nel negozio fisico. Tale pratica può essere considerata legittima sotto il profilo antitrust solo in casi eccezionali, ad esempio se volta a contrastare fenomeni di free riding di un canale (tipicamente fisico) a scapito dell’altro (tipicamente online).
Tra i fenomeni evidenziati vi sono il geoblocking e il geopricing. In cosa consistono? In che termini possono essere considerati restrittivi della concorrenza?
F. A. : Il termine geoblocking indica tutte quelle condotte atte ad ostacolare le vendite online al di fuori di determinati territori, spesso coincidenti con i confini nazionali dei diversi stati. Per fare ciò è possibile ricorrere a sistemi che impediscono la visualizzazione del sito internet del distributore a clienti che si trovano in specifici territori o che reindirizzano automaticamente i clienti verso il sito del produttore o verso i siti di altri distributori. Inoltre, vi sono sistemi che impediscono il perfezionamento della transazione una volta accertato che l’indirizzo del cliente è al di fuori di un determinato territorio o che la carta di pagamento utilizzata ha origine in uno o più specifici paesi. Tali pratiche sono considerate legittime solo se frutto di decisioni unilaterali di imprese che non detengono una posizione dominante. Al contrario, se basate su accordi o pratiche concordate tra imprese diverse possono rappresentare un’infrazione antitrust. Il geopricing rientra nella più ampia categoria della fissazione del prezzo di rivendita e consiste nell’imporre ai distributori di rivendere i prodotti a specifici prezzi, diversi a seconda del paese dell’acquirente. Anche in questo caso, finché è il produttore, sul proprio sito, a vendere a prezzi differenti in paesi diversi, la pratica non è considerata un’intesa restrittiva della concorrenza, poiché l’intesa presuppone l’esistenza di almeno due imprese distinte. È invece considerata pratica illecita quando frutto di un accordo tra produttore e distributore, il quale si impegna a rivendere i prodotti a specifici prezzi. Queste infrazioni sono punite con sanzioni molto rigorose, che possono arrivare al 10% del fatturato dell’azienda che la pone in essere.
Alcune imprese utilizzano software per il monitoraggio dei prezzi praticati online. Qual è la posizione della Commissione?
F. A. : Su questo non ci sono ancora posizioni precise da parte delle autorità di concorrenza, che si trovano a rapportarsi con problemi giuridici nuovi, frutto di una costante evoluzione del mondo tecnologico. La Commissione ha individuato alcune criticità che possono essere legate all’aumento di trasparenza dovuta all’uso di tali software, ma vista l’assenza di precedenti, non è ancora giunta a stabilire in maniera puntuale i casi in cui l’uso di questi software sia legittimo o meno. Probabilmente, la Commissione si ripropone di monitorare gli sviluppi di questo fenomeno nel corso delle prossime istruttorie. Sicuramente, incrementare il livello di trasparenza rispetto ai prezzi praticati e quindi aumentare il controllo da parte dei fornitori del rispetto da parte dei rivenditori dei prezzi di rivendita imposti o “raccomandati” potrebbe condurre a una più agevole concertazione di prezzo, cosa vietata in una prospettiva concorrenziale.
In alcuni casi i brand owner non consentono ai distributori di rivendere i propri prodotti su piattaforme di marketplace. Quando questa pratica può essere valutata legittima?
F. A. : Le linee guida della Commissione europea del 2010 affermavano che nell’ambito della distribuzione selettiva è possibile che il produttore imponga al distributore di rivendere i propri prodotti solo su siti che abbiano dei parametri qualitativi sostanzialmente equivalenti a quelli richiesti per la vendita nei negozi brick&mortar. Nell’ambito di tali parametri, sembrava lecito escludere la rivendita sui marketplace, ossia piattaforme su cui è possibile acquistare prodotti di molteplici venditori, in quanto si riteneva che tali strumenti potessero di per sé rappresentare una minaccia per l’immagine del produttore e l’esclusività del brand. Simili pratiche però sono state oggetto di attenzione da parte di autorità di concorrenza e giudici nazionali, in particolare tedeschi, che hanno ritenuto, in alcuni casi, che tali divieti potessero essere sproporzionati rispetto agli scopi che si intendevano perseguire. La Commissione sembrerebbe propensa a confermare quanto affermato nelle linee guida ma si riserva di valutare la legittimità di queste clausole caso per caso. La questione è in ogni caso al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Cosa sottende tale interesse, nei confronti dell’e-commerce, da parte della Commissione?
F. A. : La diffusione dell’e-commerce ha aumentato la trasparenza del mercato e rotto i naturali confini geografici che caratterizzavano la distribuzione fino a qualche anno fa. L’incidenza sul libero commercio nell’Unione Europea delle intese tra produttori e distributori è quindi fortemente aumentato. Di conseguenza, la Commissione e le autorità nazionali hanno posto tra le priorità della loro agenda la repressione delle intese restrittive della concorrenza in questo campo. Dedicandosi a questa indagine, la Commissione lancia un chiaro segnale alle imprese operanti nel mercato, affinché si conformino alle regole e adottino ogni provvedimento opportuno a porre rimedio ad infrazioni antitrust.
Che tipo di provvedimenti?
F. A. : Le imprese, per evitare il rischio, a mio parere estremamente elevato, d’incappare in procedimenti per intese verticali dinnanzi alle autorità antitrust, possono fare due cose. In primis, adottare dei programmi di compliance antitrust che consentano loro di evitare, o quantomeno ridurre, la possibilità di commettere delle violazioni del diritto antitrust. In secundis, è necessario passare in rassegna sia il proprio sistema distributivo che tutto l’impianto contrattuale in quanto i contratti di distribuzione potrebbero contenere clausole restrittive della concorrenza, anche senza che l’impresa stessa ne sia pienamente consapevole. Il rischio è, da un lato, quello di ricevere elevate sanzioni e, dall’altro lato, di trovarsi di fronte alla nullità delle clausole illecite.
La Commissione si occupa anche delle restrizioni imposte ai retailer per l’uso dei marchi nelle pubblicità. L’utilizzo del brand come keyword, per usufruire di servizi di posizionamento online, può essere limitato dal titolare. In quali ipotesi ciò può avvenire?
G. G. : Nella giurisprudenza in tema di marchi il leading case è il caso Interflora (causa C-323/09), in cui la Corte di Giustizia ha stabilito che è lecito, per un soggetto terzo, utilizzare un AdWords corrispondente ad un altrui marchio, sempre che le modalità di uso siano corrette. Il brand owner può porre quindi dei limiti non tanto all’acquisto della parola chiave corrispondente al marchio, quanto alle modalità di uso della stessa se queste ledano una delle funzioni protette del marchio. Ad esempio, il retailer che usasse come parola chiave il marchio dei prodotti rivenduti dovrà preoccuparsi che negli annunci generati dall’uso della parola chiave non vi siano equivoci sulla natura del rapporto che intercorre tra il rivenditore e il produttore. Dunque partendo dal presupposto di fondo che l’acquisto di AdWords corrispondenti all’altrui marchio è lecito dal punto di vista del diritto dei marchi, la Commissione vede con sfavore clausole contrattuali che impongano un divieto assoluto in capo ai retailer di usare i marchi dei prodotti venduti per fruire di servizi di posizionamento. Ciò infatti potrebbe condurre all’impossibilità o a una estrema difficoltà per il pubblico di reperire il sito internet del retailer. Altre volte, invece, il brand owner si preoccupa di disciplinare con il retailer le modalità di acquisto delle parole chiave corrispondenti ai suoi marchi per evitare che il retailer, possa giocare al rialzo sull’acquisto per apparire più in alto sui motori di ricerca o faccia salire eccessivamente il costo della parola chiave corrispondente al marchio. Questo perché il meccanismo di vendita delle parole chiave funziona ad asta e chi più paga, più in alto appare nei risultati di ricerca. Questo tipo di accordi è segnalato dalla Commissione come diffuso nella prassi ma non è oggetto di una presa di posizione specifica quanto alla compatibilità con il diritto della concorrenza, anche se parrebbe non essere visto con totale sfavore.
Quali sono gli strumenti di tutela che il marchio offre e a cui il titolare può ricorrere, per esempio, in caso di distribuzione non autorizzata?
G. G. : In questo caso ci riferiamo alla possibilità per il titolare del marchio di esercitare i suoi diritti nei confronti di un soggetto rivenditore del prodotto che con lui non ha alcun accordo commerciale, perché opera sul mercato parallelo. Affinché il titolare del marchio possa agire facendo valere i propri diritti di marchio per vietare simili forme di rivendita, è necessario che ricorrano specifiche condizioni di fatto. La semplice distribuzione del prodotto originale su un canale non autorizzato non è sufficiente come base per un’azione fondata sulla tutela del marchio, alla luce del principio di “esaurimento” dei diritti di marchio (secondo cui una volta che un bene recante il marchio viene messo in commercio sul mercato europeo dal titolare o con il suo consenso le prerogative derivanti dal marchio su quel bene vengono meno). Tra le pratiche che invece consentono al brand owner di attivarsi per fare valere i suoi diritti, vi è quella dell’alterazione o modificazione non autorizzate del prodotto di marca o della sua confezione dopo la prima immissione in commercio. L’alterazione può riguardare anche elementi come l’etichetta e i codici di apposti sul prodotto per la sua tracciabilità. In altri casi può venire in considerazione una presentazione gravemente inadeguata del prodotto sul punto vendita. In particolare se il prodotto è di lusso e viene distribuito dal titolare sui canali autorizzati con standard distributivi di alto livello, tipicamente mediante un sistema di distribuzione selettiva, il titolare del marchio potrebbe agire facendo valere i suoi diritti sul marchio per vietare forme parallele non autorizzate di rivendita, che siano fortemente svilenti per il marchio, ove dimostri che da esse deriva un grave pregiudizio per l’immagine di lusso del brand. In questa seconda ipotesi, a differenza della prima, il titolare non potrà verosimilmente ottenere misure volte al sequestro e alla distruzione dei prodotti, se questi siano integri, ma potrebbe ottenere misure volte a far cessare le modalità di rivendita inadeguate (comunicazione, posizionamento dei prodotti etc.) o persino a ritirare dalla vendita i prodotti presentati in maniera inadeguata.
Ci sono altre azioni che il titolare del marchio può esperire contro i rivenditori non autorizzati?
G. G. : Vi è un altro tipo di azione che può essere esperita dal titolare del marchio nei confronti di rivenditori non autorizzati, ovvero l’azione di concorrenza sleale ove il rivenditore non autorizzato si procuri i prodotti inducendo i distributori autorizzati a violare il contratto di distribuzione selettiva che vieta loro di rivendere i prodotti a terzi commercianti al di fuori dei canali autorizzati. L’induzione all’inadempimento, infatti, costituisce, secondo una certa giurisprudenza, una forma di concorrenza sleale, ove sia attuata al fine di fare concorrenza a un sistema di distribuzione organizzata, in quanto interferisce in maniera voluta su quest’ultimo danneggiandolo. Quando l’attività assume proporzioni significative, tanto appunto da danneggiare il sistema di distribuzione selettiva, il titolare potrebbe reagire con un’azione di concorrenza sleale chiedendo l’inibitoria dell’attività del rivenditore.