A soli sei mesi dalla quotazione, Ovs vale il 50% in più. Un caso di successo che il CEO del gruppo spiega alla luce di un percorso che inizia da lontano. Rimettendo in discussione ogni certezza e riportando al centro il prodotto.
Quotata alla Borsa Italiana dallo scorso marzo, oggi Ovs capitalizza 1,4 miliardi di euro. Un caso di listing di successo, che il CEO del gruppo Stefano Beraldo, nel corso dell’intervista con Enrico Mentana durante il ventesimo convegno Pambianco, ha spiegato come l’epilogo fortunato di un percorso. Che parte dai tempi in cui Ovs era l’acronimo di ‘Organizzazione Vendite Speciali’ e prosegue fino a oggi: adesso, il gruppo ha raggiunto la vetta italiana del mercato dell’abbigliamento. Nel mezzo, diversi passaggi di mano e due quotazioni. L’ultima è stata decisamente la più fortunata: a soli sei mesi dall’approdo sui listini, l’azienda vale il 50% in più.
In anni difficili per le Ipo, siete stati in grado di convincere investitori stranieri, alcuni dei quali nemmeno vi conoscevano, a scommettere su di voi. Come avete fatto?
Agli inizi Ovs era sì conosciuta in Italia, ma lo era principalmente, se non unicamente, per il prezzo. Attraverso due private equity e la recente quotazione in Borsa siamo cresciuti, riuscendo a posizionarci non più solo come un’insegna, ma come un brand a tutti gli effetti. Volevamo tornare a essere aggressivi non solo per il rapporto qualità-prezzo, ma anche per il valore dei nostri prodotti. Gli investitori (i nostri sono per il 40% inglesi e per il 25% italiani) comprano storie semplici e ‘implementabili’: quello che conta è il progetto. Evidentemente, nel nostro, ne hanno riconosciuto uno valido. E adesso, a soli sei mesi dall’ingresso in Borsa, l’azienda vale il 50% in più di quando l’abbiamo quotata: il mercato si è ritrovato in ciò che avevamo promesso.
Qual è la ricetta per attirare anche i clienti, oltre agli investitori?
Anche in questo caso, attraverso un buon prodotto. Se si vende solo il prezzo e non si è capaci di rendere interessante, soprattutto agli occhi dei giovani, il marchio nel suo complesso, è inutile girarci intorno: i clienti non entrano in negozio. Ai tempi della crisi, ci siamo resi conto che al marchio occorreva una nuova brillantezza, e in questo mi ha aiutato molto il mio amico Elio Fiorucci. Ho viaggiato parecchio insieme a lui, ed è stato lui a darmi il coraggio di credere che anche se si ha un passato da contabili, come nel mio caso, si può essere anche dei creativi.
A un certo punto, durante la crisi, sembravate spacciati…
Prima della crisi eravamo i primi della classe, con un ebitda che arrivava al 18%, in linea con quello di Zara ed H&M. Poi, in quattro anni, l’abbigliamento in Italia ha perso il 20 per cento. Da che il nostro Paese era il mercato più grande d’Europa, siamo arretrati in tutte le classifiche. Una perdita di mercato di questo tipo per Ovs poteva essere letale: di lì, la messa in discussione di ogni certezza. Abbiamo iniziato a lavorare gomito a gomito con i matematici, con le Università. Abbiamo fatto entrare la scienza nel nostro business. Questo ci ha permesso, nell’anno precedente alla Borsa, il 2014, di sopraperfomare il mercato del 10 % a parità di prezzi, in un momento in cui gli altri perdevano in media il 4,5 per cento.
In cosa consiste essere paladini della moda democratica?
Significa aver scelto di essere, in qualche modo, ‘follower’ delle grandi aziende del lusso. Chi fa fast fashion è democratico perché ha optato per tempi diversi di realizzazione dei prodotti: rischiamo meno e quindi sbagliamo meno rispetto ai player del lusso. Ma la creatività, torno a ripeterlo, sta da entrambe le parti.
Puntate a fare la guerra a Zara e a H&M nel mondo?
Tempo addietro avevamo iniziato un percorso di aperture internazionali, che si era concretizzato in diversi opening importanti, ma improvvisamente ci siamo resi conto che intanto l’Italia sprofondava. Se ci fossimo disinteressati del nostro Paese, non avremmo avuto le energie nemmeno per conquistare il mondo. Quindi, all’epoca, abbiamo deciso di fare un passo indietro. Guardando al futuro, posso affermare con sicurezza che oltre confine c’è spazio in abbondanza per il fast fashion italiano. Parlare di guerra internazionale a Zara e a H&M forse è eccessivo. La battaglia è già in atto in Italia perché entrambi sono estremamente aggressivi. Parlerei più di una piccola battaglia, di qualche scaramuccia. Noi ci siamo.
di Caterina Zanzi