Il presidente spiega le strategie del gruppo che opera nel caffè, tè, cioccolato e alta pasticceria. L’espansione servirà per ottenere risorse da reinvestire tra Montalcino, Langhe e Francia. I proventi dalla cessione del 5% di Grom? “Li utilizzeremo per partnership distributive sui brand, cominciando da Domori”.
Più che a future acquisizioni, ora le attenzioni del gruppo Illy sono rivolte al retail dei marchi extra caffè, dove opera con Mastrojanni nel vino e Domori nel cioccolato, società interamente controllate, e Dammann Frères nel té, di cui possiede il 77% delle quote al pari di Betjeman and Barton (accessori da tè), a cui si aggiunge il 40% di Agrimontana nei prodotti di alta pasticceria. Nel prossimo company profile, tra le attività del gruppo, comparirà un brand in meno: si tratta di Grom, di cui la famiglia Illy controllava il 5%, ceduto a seguito dell’operazione che ha portato la catena delle gelaterie nel mondo Unilever. “Quella con Grom è stata un’esperienza importante – spiega il presidente del gruppo, Riccardo Illy – e che continua attraverso le forniture di materie prime per i gelati che puntiamo a espandere, considerando che Unilever punterà a sviluppare le vendite dei prodotti confezionati”.
Come utilizzerete gli introiti della cessione di Grom?
Nulla è stato definito, ma siamo orientati ad accompagnare la crescita degli altri marchi con la creazione di partnership per la distribuzione internazionale. Per il cioccolato Domori, in particolare, stiamo cercando un partner che sia innanzitutto commerciale, con esperienza acquisita nel retail e a cui siamo pronti, qualora sia interessato, a offrire una partecipazione nell’azienda; ma non escludiamo nemmeno l’ipotesi di un partner industriale.
Esistono già dei contatti?
Ne abbiamo avviati tre, legati al settore e tutti con una loro concretezza. Avevamo anche tentato di approcciare dei retailer extra settore, ma finora quei contatti non hanno sortito effetti.
Come giudica l’andamento attuale delle attività extra caffè?
Il 2015 si sta rivelando un anno positivo, durante il quale siamo riusciti a rispettare i budget prefissati e in qualche caso a superarli. Siamo concentrati sulla crescita dei marchi esistenti e non alla ricerca di nuove partecipazioni o acquisizioni, che comunque non escludiamo del tutto… Se capitasse l’occasione, saremmo pronti a coglierla.
Dovendo allargare la gamma prodotti, quale sarebbe la prima acquisizione in agenda?
La risposta più spontanea è un prodotto da forno, che ben si lega a cioccolato, confetture e frutta candita, tutti settori dove siamo già presenti. Ma non c’è nulla di concreto, soltanto ipotesi.
Come sta performando Dammann Frères?
Registriamo una crescita all’estero e anche in Francia, dove la società ha sede, in parte per la ripresa dell’economia e in parte per effetto del cambiamento della nostra politica commerciale, basata su una drastica selezione dei clienti e sul potenziamento del progetto corner. Stiamo inoltre allargando la rete dei negozi monomarca.
Che tipo di negozi avete in mente?
Pensiamo in parte a monomarca e in parte a multibrand che, sull’esempio di quanto ha fatto Della Valle nella moda, diventino i contenitori ideali per tutti i nostri marchi, vino compreso. Abbiamo già avviato due operazioni di questo tipo con le Illyteca di Brescia e Trieste: la formula, se valutiamo il rapporto tra dimensione e fatturato dei negozi, funziona molto bene.
E Agrimontana come sta andando?
È, in assoluto, il brand caratterizzato dalla crescita più rapida, a doppia cifra e ben al di sopra del 10 percento.
Domori?
Dopo il +15,3% del 2014, Domori continua a crescere a ritmi sostenuti nel canale retail e ancor più in quello professionale, che è curato da Agrimontana tramite la controllata Agriland.
Sul vino, dove operate con il brand Mastrojanni, che progetti ci sono?
Il vino per noi è strategico e costituisce un investimento a lungo termine: talvolta, scherzando ma non troppo, dico che si tratta di un progetto per i nipotini. Il nostro obiettivo è far crescere tè e cioccolato per arrivare a dimensioni che siano nell’ordine di grandezza del caffè, ottenendo da quelle attività il cash flow necessario da investire nel vino, settore ad altissima intensità di capitale.
Avete già in mente le zone dove effettuare acquisizioni?
Pensiamo a territori dove si producono i vini universali come Montalcino, dove siamo già presenti con Mastrojanni, Barolo e anche alla Francia. Ma si tratta di un futuro piuttosto lontano. Intanto facciamo crescere l’esistente.
Come valuta il moltiplicarsi degli investimenti in atto nel mondo vino, compresi quelli dei fondi di private equity?
Conviene davvero investire nel settore? Investire in vino conviene, perché offre due tipi di ritorno. Il primo è la redditività d’impresa che, una volta raggiunta una soglia dimensionale critica e determinati prezzi, può essere realmente interessante. Il secondo, legato alla plusvalenza che si può ottenere dalla successiva cessione fondiaria, lo è ancor di più. Detto questo, ho forti dubbi sul beneficio derivante da un intervento dei fondi di private equity nel settore.
Perché?
Rischiano di far danni. L’investimento in agricoltura dovrebbe essere avviato sulla base di una visione a lungo termine, invece il fondo ragiona a breve e tende a investire più nel marketing che in cantina o in vigna. L’elemento principale di valore, per un soggetto finanziario, diventa il brand. Sfruttando quelle leve, finirà per magnificare prodotti che di grande qualità non sono.
Cosa accadrà, con il maggiore innesto di risorse, nell’Italia del vino?
Aumenterà la concentrazione e nasceranno nuovi gruppi di significative dimensioni. Ciò comporterà una maggiore capacità di esportare, di organizzare la distribuzione e di sfruttare le leve del marketing; il che non è affatto negativo, purché non si perda di vista la qualità di base.
Parliamo di fiere. Quali sono le manifestazioni che contano nel mondo?
Sicuramente Vinitaly, e noi ci siamo. Sicuramente Prowine a Düsseldorf, dove troviamo una presenza di compratori stranieri maggiore e anche più professionale rispetto a Vinitaly, e noi ci siamo. Infine, qualche iniziativa nei mercati in forte crescita, che sono nord America e Asia.
Sono ancora necessarie le fiere, nel mondo del vino?
Direi di sì, specialmente oltre confine. Del resto le dimensioni medie aziendali, rispetto ad altri settori di eccellenza come la moda, sono alquanto ridotte: imprese che fatturano pochi milioni di euro, spesso con un solo responsabile commerciale, non hanno altre leve di marketing a disposizione.
Oltre il 60% dell’export italiano dipende da quattro mercati: Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Svizzera. Rischio eccessivo?
Considerando il restante 40% distribuito in tutto il globo, la frammentazione è già sufficiente e se anche uno dei quattro big dovesse avere dei problemi, gli altri riuscirebbero a compensare le perdite. Credo inoltre che i mercati oggi in difficoltà, mi riferisco soprattutto alla Russia, torneranno a crescere e che aree non ancora sviluppate per l’export italiano, ad esempio la Cina, acquisteranno importanza. Le aziende dovranno farsi trovare pronte per ritirarsi da quei mercati che eventualmente chiuderanno le porte, entrando laddove le stanno aprendo.
Ovvero?
Beh, è sorprendente apprendere che uno dei mercati africani più importanti per lo Champagne non sia il Sudafrica, bensì la Nigeria. Se oggi i nigeriani consumano Champagne, con il tempo saranno pronti anche per il Brunello di Montalcino.
di Andrea Guolo