Diecimila nuovi posti di lavoro rilocalizzati negli Stati Uniti nei prossimi dieci anni. Questa la promessa di Nike nel giorno in cui il presidente americano, Barack Obama, ha visitato la sede del gruppo a Beaverton, in Oregon, per ribadire l’importanza della Trans-Pacific Partnership (Tpp), l’accordo per un mercato unico tra 12 Paesi del Pacifico, tra cui l’Australia e la Nuova Zelanda, la Corea del Sud e il Giappone.
Alcune ore prima che il presidente arrivasse, qualche giorno fa, nella sede del gruppo a stelle e strisce, i vertici della società hanno fatto sapere di voler tornare a produrre le scarpe negli Stati Uniti per la prima volta in tre decadi, ma a patto che il deal proposto da Obama passi. Se Nike produce alcuni componenti negli Stati Uniti, infatti, non assembla scarpe nel Paese dal lontano 1984. In un comunicato diffuso dal gruppo, Nike ha reso noto che la riduzione delle tariffe del footwear con il Tpp permetterebbe all’azienda di “accelerare lo sviluppo di nuovi metodi manufatturieri e di sviluppare una catena di distribuzione che supporti la produzione in Usa”.
Una buona notizia sembra così arrivare dal gruppo, per decenni simbolo di outsourcing, nonostante l’operazione di rientro riguarderebbe pochi impiegati rispetto a quelli totali che, ad oggi, si stimano attorno a 1 milione di persone, il 90% di cui si trova in Asia, soprattutto in Vietnam, proprio uno dei Paesi coinvolti nelle discussioni per la creazione del mercato unico nel Pacifico. Il provvedimento sta accendendo l’arena politica negli Stati Uniti, con i repubblicani e anche alcuni democratici che si sono schierati contro il progetto. E, anche riguardo al caso Nike, ci sono state perplessità da parte di alcuni esponenti del Congresso. “Nike non è la soluzione al problema dei salari invariati. Nike è il problema”, ha commentato Robert Reich, già Segretario del lavoro degli Stati Uniti durante la presidenza di Bill Clinton.