È stata la prima fashion week senza la griffe dell’Architetto. Ma non è l’unica maison italiana il cui destino, dopo il passaggio in nuove mani, sembra segnato.
Nel clima euforico della fashion week milanese il grande assente era Gianfranco Ferré. Per la prima volta dal 1978 non c’è stata alcuna sfilata o presentazione, alcun appuntamento formale o informale. E d’altra parte, in poche parole, non c’è più un marchio, né un direttore creativo, non c’è più una sede, venduta pochi mesi fa a Kiton, né una collezione o uno showroom. Nonostante il marchio Gianfranco Ferré abbia vissuto già in passato diverse vicissitudini, non c’è alcun dubbio che a sette anni dalla scomparsa del grande stilista sia giunto il momento di celebrare anche quella del suo marchio. Un triste epilogo per uno dei grandi nomi della moda italiana celebrati in tutto il mondo. Eppure, sebbene la vicenda di Ferré sia la più forte in termini mediatici non è l’unica. Perché gli intrecci tra moda e finanza o il passaggio sotto il controllo di grande conglomerate asiatiche non sempre hanno decretato la fortuna dei brand italiani. E se qualche marchio sembra avere già chiuso i battenti, altri sono da anni in attesa di un concreto rilancio.
Corsi e ricorsi della storia del fashion. Se ci fosse una trasposizione del film ‘Sliding doors’ dedicata alla moda ecco che i protagonisti potrebbero essere Gianfranco Ferré, Cerruti, Romeo Gigli e Mariella Burani da una parte e Moncler dall’altra, emblema di due destini opposti del Made in Italy. Moncler in realtà nasce francese, ma negli anni Novanta diventa di proprietà italiana sotto le veneta Pepper Industries. Nel 1998 Fin.part, la holding guidata da Giancarlo Arnaboldi e Gianluigi Facchini, si compra l’intero gruppo Pepper per 17,8 miliardi di lire e addirittura pensa a una possibile quotazione della società. L’Ipo arriverà quindici anni più tardi, ma con un assetto del tutto differente. Nel 2005 la Fin.part annuncia il fallimento con un crac da oltre 500 milioni di euro. Remo Ruffini si ricompra Moncler nel 2003. Il resto è cronaca degli ultimi mesi con lo sbarco a Piazza Affari dopo una vigorosa crescita negli ultimi anni. Tutt’altra storia per Ferré. Gli anni Ottanta e Novanta sono il momento d’oro della griffe che lancia la sua linea jeans, il profumo, il childrenswear e inaugura palazzo Gondrand ribattezzato poi palazzo Ferré. Nel 1999 per 161,7 milioni di euro passa nelle mani di Tonino Perna, imprenditore molisano con il pallino della moda (negli anni Ottanta lanciò il marchio Pop 84) che con la sua Ittierre voleva diventare l’alternativa italiana ai poli internazionali. Alla base della cessione ci sarebbe un bilancio decisamente poco brillante: nel 1999 le perdite ammontavano a 15 miliardi di lire a fronte di un fatturato di circa 60 miliardi. Sotto Perna si vara una strategia di rafforzamento internazionale, ma la voracità dell’imprenditore sul fronte delle acquisizioni comincia a far scricchiolare il gruppo. Nel 2009 viene dichiarato il fallimento e la cessione dei diversi asset. Per Ferré la scelta dei commissari Stanislao Chimenti, Andrea Ciccoli e Roberto Spada ricade sulla araba Paris Group, di proprietà dell’uomo d’affari Abdulkader Sankari che, tra le altre cose, avrebbe dovuto garantire una salvaguardia dell’occupazione e investimenti per 100 milioni di euro. Ma il passaggio sotto un importante gruppo mediorientale e specializzato nella distribuzione di griffe non porta al rilancio della blasonata etichetta, le cui sorti sono invece avvolte in un esasperante silenzio. Prima arriva lo scambio di accuse con i commissari, che chiedono il sequestro del marchio a fronte di impegni assunti e mai mantenuti, e poi con gli eredi di Ferré che porta al trasloco dalla sede di via Pontaccio. Il nodo della questione diventa l’effettiva distribuzione del marchio. Per due stagioni, fino al recente addio degli stilisti a partire dalla collezione autunno/inverno 2014-2015, il duo Federico Piaggi e Stefano Citron lavora su collezioni che però, sembra, non siano state poi messe in produzione. Le ultime notizie sembrano confermare l’ipotesi nell’aria da tempo, ovvero che l’azienda abbia deciso di disinvestire in Italia, trasferendo armi e bagagli all’estero, per concentrarsi solo sulle licenze in essere da tempo. Ma anche le royalties cominciano a diminuire: niente più eyewear con Allison che non ha rinnovato il rapporto, mentre tra le principali resta quella del bambino con Mafrat. Cosa resterà di Ferré lo si scoprirà tra non molto. Senza stilisti, passerella e strategia comunicativa è difficile che l’eco internazionale del marchio possa essere tramandato negli anni a venire.
UNA LUNGA SCIA ROSSA
Accanto a Ferré, gli ultimi vent’anni hanno lasciato una scia di marchi apparentemente scomparsi e vittime del crac dei tre gruppi che avevano l’ambizione di diventare i poli della moda italiana: It Holding (Ittierre), Fin.part e Mariella Burani Fashion Group. Dalla disgregazione del gruppo di Perna, oltre a Ferré, è rimasto per molto tempo in bilico anche lo storico marchio di maglieria deluxe Malo. Rilevato da una cordata di ex manager Prada riuniti sotto la società Evanthe, dopo tre anni di lavoro sul fronte stilistico e soprattutto finanziario, sembra ora finalmente pronto al decollo internazionale. Sorte diversa per Romeo Gigli. Perna si innamora del marchio e lo compra nel 1999 salvo poi venderlo cinque anni dopo a Pierluigi Mancinelli, amministratore delegato della Mood. La cessione trova in disaccordo lo stesso Gigli che intenta una causa legale, primo passo di una lunga via crucis che proseguirà, con diversi interlocutori licenziatari per oltre un lustro. A rendere ancora più complicata la vicenda c’è il problema della proprietà del marchio che solo per il 20% è in mano allo stilista (il resto fa capo alla lussemburghese Euroholding). La Mood fallisce nel 2008 ma ormai le strade tra il designer e il marchio omonimo si sono separate da tempo. Gigli lancia il progetto indipendente Io Ipse Idem e nel 2011 ci riprova con la label XII XII XLIX in liason con l’italiana Fuzzi. Tentativi che non riescono a trovare il riscontro del pubblico fino all’ultimo cobranding, la linea Joyce by Romeo Gigli lanciata in collaborazione con il department store asiatico con l’autunno-inverno 2012/2013 ma di cui, dopo un paio di stagioni, non si sa più nulla. La storia di Cerruti affonda le radici addirittura nel 1800. Nato come lanificio a Biella, negli anni Sessanta grazie all’estro creativo di Nino Cerruti, diventa un marchio di abbigliamento che vanta addirittura boutique a Parigi. L’italiana Fin.part si compra prima il 51% dell’azienda mantenendo Cerruti in carica come presidente della società e direttore creativo, e un anno più tardi prende il controllo del restante 49% dell’azienda, operazione che segna il divorzio con lo stilista. Nino Cerruti prosegue sulla sua strada, torna al Lanificio Fratelli Cerruti dal 1881, lo rilancia e lo trasforma anche in una fucina di collaborazioni con giovani creativi. La storia parallela del marchio che porta il suo nome è più tortuosa. Dopo il fallimento della Fin.part il brand passa sotto il controllo del fondo americano MatlinPatterson per approdare nel 2010 nelle mani di Trinity group, colosso del retail che fa parte del gruppo di Hong Kong Li & Fung e distributore già licenziatario della seconda linea Cerruti 1881. Di un rilancio di Cerruti dal punto di vista stilistico si comincia a parlare due anni fa quando alla direzione creativa del marchio arriva Aldo Maria Camillo, osannato dalla critica per una collezione finalmente tornata agli alti livelli del marchio.
LUNGO LA VIA DELLA SETA
Cerruti non è il solo ad aver preso la via dell’Oriente. Dopo il crac di Mariella Burani Fashion Group e la frantumazione dell’impero in mille rivoli, anche ciò che rimaneva della maison di Cavriago finisce in mano ai cinesi. O meglio, verso una finanziaria di Hong Kong che si aggiudica per poco più di 2 milioni e mezzo di euro bozzetti, cartamodelli e oltre 1.300 abiti di sfilata appartenenti al fallimento del gruppo Mariella Burani. Cosa ne sarà del marchio? Nulla è trapelato ed è quindi improbabile che possa tornare sulle passerelle. La scia di icone italiane finite in mani orientali continua ad allungarsi. L’ultima in ordine di tempo è Krizia che ha annunciato la cessione alla cinese Marisfrolg Fashion. Sarà una nuova meteora? Sulla carta sembrerebbe il contrario. L’acquisizione, spiegano nella nota, mira a riportare il brand agli antichi fasti inaugurando nuovi negozi a Pechino, Shanghai, Guangzhou, Shenzhen e Chengdu e riaprendo le boutique nelle principali città in Europa, Giappone e Usa. Ma il passaggio della proprietà in Cina fa nascere più di un dubbio. Mariuccia Mandelli, artefice dei 60 anni di storia del marchio, lascerà ogni incarico all’imprenditrice Zhu ChonYun che ricoprirà così il doppio ruolo di presidente e direttore creativo. Il nuovo corso della maison sarà svelato con la sfilata del prossimo febbraio. E solo in quel momento si capirà dove porta, questa volta, la via della seta.
Di Milena Bello