Nei primi due mesi del 2014, un vento gelido ha soffiato sulla moda. A lanciare l’allarme è l’Osservatorio Confesercenti, segnalando che una chiusura su quattro ha interessato un negozio di abbigliamento. Nel dettaglio, hanno abbassato le serrande 3.065 esercizi di abbigliamento, a fronte di sole 723 nuove aperture. Il saldo è negativo di 2.342 unità.
In totale, il comparto ha registrato una flessione del numero di imprese attive dell’1,4% su dicembre e del 2,3% sul primo bimestre del 2013. L’emorragia ha colpito tutte le regioni italiane, con qualche differenza territoriale: in Lombardia, si rileva il maggior numero di chiusure nel bimestre (277), ma sull’anno il calo proporzionalmente maggiore è stato registrato in Sardegna, dove le imprese sono diminuite del 3,5% rispetto a febbraio 2013.
Saldi e offerte non sono bastati, dunque, a risollevare la crisi della distribuzione fashion in Italia, perché la diminuzione del reddito disponibile delle famiglie ha portato alla discesa costante della spesa in abbigliamento e accessori che, tra il 2007 e il 2013, si è tradotta in una flessione del 15,2%, per un totale di quasi 10 miliardi in meno di consumi.
La quota di spesa media mensile dedicata al vestiario dalle famiglie italiane si è attestata nel 2012 al 5%, quasi la metà del 13,6% registrato nel 1992 che ci poneva, assieme al Giappone, al vertice della classifica mondiale. “In parte – spiega Confesercenti – il processo è dovuto senz’altro a motivi culturali: il concetto stesso di status symbol, che una volta includeva spesso e volentieri particolari capi di vestiario, anche importanti, sembra ormai essersi spostato verso i prodotti tecnologici”.
Se il trend registrato nel primo bimestre di quest’anno dovesse proseguire, stima Confesercenti, a fine anno le chiusure saranno quasi 18mila, mentre il saldo negativo arriverà a sfiorare quota 14mila imprese, sulle quali “pesano anche la pressione fiscale molto alta (per quest’anno al 66% sui profitti) e il caro-affitti”, spiega l’associazione.