Il fenomeno dei mini-bond, lo strumento ri-definito nel decreto sviluppo del 2012 che ne ha previsto agevolazioni fiscali, resta ancora largamente sottoutilizzato dalle piccole e medie imprese italiane. Potrebbe essere una leva di crescita utile anche per il settore della moda, alla costante ricerca di strade di crescita dimensionale. Eppure, come per altre soluzioni (Borsa e private equity) non sembra alla portata di tutti. Secondo un’analisi di Crif Rating Agency, ci sarebbero in Italia 10.457 aziende con i requisiti per un’emissione obbligazionaria di questo tipo. Di questo campione, la moda, intesa come pelle, tessile e abbigliamento, ne conterebbe 607, una cifra molto ridotta: appena il 5,8% del totale. Nello specifico, sono 189 quelle appartenenti al comparto dell’industria della pelle, 174 quelle attive nell’industria dell’abbigliamento e 244 quelle dell’industria tessile.
La disciplina dei minibond si applica alle piccole e medie imprese definite dalla raccomandazione 2003/361/CE come imprese con meno di 250 dipendenti e un fatturato annuo inferiore ai 50 milioni, oppure con un totale di bilancio inferiore a 43 milioni. Sembrerebbe dunque esserci molto spazio per le pmi della moda. Restano escluse dalla norma le micro-imprese.
Nello specifico, lo studio Crif ha focalizzato l’attenzione sulle aziende con fatturato di almeno 5 milioni di euro, ebitda pari ad almeno il 10% del fatturato e sempre positivo negli ultimi 3 anni e leva finanziaria (cioè il rapporto tra debiti finanziari e patrimonio netto) non superiore a 4. Si ricordano, inoltre, i requisiti previsti dalla normativa del Decreto Sviluppo e dal regolamento dell’ExtraMot Pro (la nuova piattaforma creata da Borsa Italiana per accogliere obbligazioni e cambiali finanziarie emesse ai sensi del Decreto Sviluppo), ossia la pubblicazione del bilancio degli ultimi due esercizi, di cui l’ultimo sottoposto a revisione contabile.