In arrivo una maxi multa da 343 milioni di euro più interessi per Domenico Dolce e Stefano Gabbana. La commissione tributaria di Milano ha confermato la sentenza di primo grado, del novembre 2011, respingendo il ricorso presentato dai legali dei due stilisti. La notizia era stata anticipata in gennaio da Il Fatto Quotidiano ed è stata rilanciata nei giorni scorsi dall’agenzia AdnKronos. che ha recuperato la sentenza. Il contenzioso tra il duo creativo e il fisco italiano si riferisce ai fatti avvenuti dal marzo del 2004, quando Domenico Dolce e Stefano Gabbana costituirono una società nel vicino paradiso fiscale Lussemburgo, la Dolce & Gabbana Luxemburg sarl. La quale, a sua volta costituì, la Gado sarl. Nel passaggio successivo, che secondo il fisco avrebbe riproposto il classico sistema di scatole cinesi fatto per occultare proventi alle Entrate, la Gado sarl acquistò dagli stessi stilisti alcuni dei marchi del loro impero (per un investimento di 360 milioni) e, successivamente, attraverso un contratto di licenza, concesse a un’altra società (la Dolce & Gabbana srl) il diritto di sfruttamento dei marchi in esclusiva e dietro il pagamenti di royalties. Nel 2007 l’Agenzia delle Entrate iniziò ad indagare sui movimenti sospetti e nel 2010 gli agenti del fisco accusarono gli stilisti, in quanto persone fisiche, di aver messo in funzione una “cassaforte costituita ad hoc”, cioè la Gado sarl, per “attuare una pianificazione fiscale internazionale finalizzata al risparmio d’imposta”. Dolce e Gabbana avevano presentato appello contro la condanna in primo grado, ma circa un anno dopo era arrivata la conferma in secondo grado. Per le questioni col fisco è previsto un terzo grado, ovvero la possibilità di appello in Cassazione.
Il caso è oggetto anche di un procedimento giudiziario a carico dei due stilisti. Nell’aprile del 2012 il giudice per l’udienza preliminare di Milano, Simone Luerti, li aveva prosciolti dalle pesanti accuse di truffa ai danni dello Stato e dichiarazione infedele dei redditi per circa un miliardo di euro. Ma la sentenza è stata ribaltata dalla Cassazione.