Colloquio con Carlo Pambianco. Il mercato del lusso può approfittare della crisi. Puntando su investimenti e fusioni. E sulle reti proprie di distribuzione. Parola di super esperto.
Ne ha viste tante di crisi. Quella del 1989, poi quella del 2001, e quella che stiamo vivendo ora. E può dirlo. Il lusso non è mai stato colpito come stavolta. Dal suo ufficio milanese di piazza San Babila, Carlo Pambianco osserva il mondo della moda da quando sotto i portici dagli affitti oggi iperbolici c'era ancora il negozio di verdure. Questo gli ha permesso di esserne un testimone unico, ma anche di diventare il consigliere – spesso il confidente – di quasi tutti gli industriali del settore, il depositario di gran parte delle scelte fatte e il regista di quelle da farsi. E poiché, al contrario degli analisti delle grandi banche d'affari che monitorano solo le aziende quotate, Pambianco non perde di vista oltre ai big anche quel mondo vitalissimo delle piccole e medie imprese della moda, c'è da credergli quando prevede che avverrà lì il gioco più interessante, con la chance di crescere offerta proprio dalla crisi a chi la saprà cogliere. Come c'è da credergli quando stima la perdita di fatturato del settore in questo annus horribilis: meno 10 per cento. Il che vuol dire che chi spendeva cento, oggi spende 80. Riduzione che si traduce in un calo di redditività delle imprese del lusso (misurata con l'ebitda, cioè il margine operativo lordo) del 3-4 per cento. Una retromarcia non indifferente per un settore abituato da sempre al segno più.
Pambianco, nel 2008 il lusso tutto sommato aveva tenuto. Poi è arrivata la sberla del 2009. Il 2010 come andrà?
Nel prossimo anno credo che terremo le posizioni del 2009: e se miglioramento ci sarà, sarà limitato a un 2 per cento di crescita di fatturato e un punto di recupero della redditività. Anche se io temo che per molti i prossimi dodici mesi saranno vissuti peggio di quelli appena passati, perchè ci si accorgerà che il cammino della ripresa sarà molto più lento.
Tra italiani e stranieri, chi se l'è cavata meglio?
«Tra le quotate, le straniere hanno perso meno (il 2 per cento circa di fatturato e anche di margine); le italiane quotate mostrano invece una perdita del 5 per cento del fatturato, e del 3,5 di redditività».
Chi è riuscito a galleggiare meglio sulla crisi?
«Si sono salvate le aziende che lavorano nella fascia medio-alta del mercato, quegli imprenditori di prima generazione tra i 40 e i 50 anni, marchi come Pepe, Pinko, Liu Jo, Elisabetta Franchi, insomma il fast fashion, che ha difeso i fatturati».
Come ci sono riusciti?
«Hanno azzeccato il target dei consumatori, e possiedono i propri negozi».
Avere la propria rete di distribuzione costa…
«Certo, ma ha una funzione fondamentale: diffonde il marchio, e consente un rapporto diretto con il mercato. A fine giornata sai esattamente i dati di vendita. E questo è strategico perché il mercato chiede alle aziende risposte in tempi sempre più stretti, come ha dimostrato il successo di Zara o H&M: pronte ogni 15 giorni a dare prodotti nuovi su quello che chiede il consumatore, zero rimanenze, niente pubblicità. Gli unici gruppi che con la crisi sono andati a nozze».
Ma la crisi non ha segato piani di espansione, ridimensionato progetti?
«Se gestisci un'azienda da un miliardo e mezzo di fatturato, come Prada o Armani o Gucci, non puoi avere una logica a breve. E' per questo che molti imprenditori stanno lontani dalla Borsa: lì ogni tre mesi ti chiedono i conti, mentre loro hanno visioni di medio-lungo termine. Detto questo, chi ha potuto qualche apertura l'ha slittata».
Si saranno posti tutti il problema dei costi: dove hanno tagliato?
«Siccome il calo del fatturato e delle vendite va più veloce della riduzione dei costi, si sono chiesti tutti: che cosa possiamo fare a breve? Prima risposta: ridurre il personale. E, infatti, Prada ha messo in cassa integrazione 250 persone, Versace 350, Chanel 200. Poi hanno inciso sull'altra voce a impatto immediato: la pubblicità».
Eppure gli strateghi di Lvmh, primo gruppo mondiale del lusso, quando teorizzano i quattro ingredienti del modello di business – prodotto, distribuzione, comunicazione e prezzo – dicono che occorre far un ottimo lavoro sui primi tre per far dimenticare ai consumatori il quarto. Non è rischioso cambiare il mix?
«I negozi li puoi strizzare fino a un certo punto, fanno la vendita. La comunicazione incide tra l'8 e il 12 per cento: lì si può fare efficienza. L'unica cosa su cui non puoi risparmiare è il prodotto: lì ci deve essere una ricerca costante, avere una squadra di creativi, andare in giro per il mondo».
Per tagliare i costi, nessuno pensa a delocalizzare?
«La crisi non ha inciso molto nei processi: certo, si riflette sempre se conviene andare in altri mercati. Ma nel breve, chi voleva delocalizzare 1'ha già fatto. La pancia dei grandi marchi è in Italia: i francesi, se vogliono fare le calzature, vengono da noi; le sue prime linee Ralph Lauren le fa qua. La delocalizzazione è più legata a prodotti in cui l'incidenza del costo della manodopera sul prezzo finale è alto. In settori come le calzature di fascia bassa, è ovvio che vanno fuori. Ma sull'emblema del made in Italy il fenomeno della delocalizzazione – anche se esiste – non è la soluzione del problema. L'ho chiesto direttamente alle aziende in un mio recente sondaggio: le risposte sono state negative. E poi la velocità richiesta dalla crisi va in senso contrario al processo di delocalizzazione. Anche Diesel mi diceva tempo fa di voler rivedere il suo modello produttivo: “Saliamo di livello, per cui la produzione fatta fuori ci condiziona più che avvantaggiarci'”. D'altra parte i nostri concorrenti (i francesi nell'alta moda, gli americani nello sportswear) sono tutti ben impiantati in Italia per la produzione».
Nessuno pensa di manovrare la leva prezzo?
«Le griffe non usano questa leva. Piuttosto, hanno allargato la gamma degli “entry price”: non è lo stesso prodotto che costa il 20 per cento in meno, ma invece di sei modelli da cento euro (e il resto da 200 o 300) nella collezione ne ho inseriti 15. Se vai a vedere, è come abbassare i prezzi. Un'altra strada è espandere il periodo dei saldi: sconti maggiori, periodo piu lungo, quindi effetto abbassamento».
La Borsa non ha penalizzato tutti allo stesso modo: perchè?
«L'abbigliamento donna ha tenuto meglio dell'abbigliamento formale da uomo (meno 15-20 per cento di fatturato); i gioielli vanno male, perchè soffrono della crisi del loro primo mercato di sbocco gli Usa. E, infatti, Bulgari ha visto il suo ebitda scendere dai 119 milioni di euro dei primi nove mesi del 2008 ai 36 milioni di quest'anno. Brioni, che fa il formale-uomo, soffre di più di chi è nel settore donna in Europa. Il settore calzature è travolto dalla crisi in Russia. Il mercato che ha tenuto meglio è la Cina: chi è saldo, lì, come Zegna che ha cinquanta negozi in Cina, è salvo».
Chi ha i maggiori atout in mano? Chi può aspettare senza tremare la fine della crisi?
«Chi ha soldi può continuare a investire approfittando anzi della debolezza degli altri per rafforzarsi. Penso a Pepe, Pinko, Peuterey. Chi non ha debiti, ha una situazione finanziaria solida, si siede e aspetta. Trema chi ha debiti, come Burani: ha comprato altre aziende finanziata dalle banche, contando di fare sinergie e restituire soldi. Ma è arrivata la grandine, e il piano di rimborso è saltato».
Ci dobbiamo aspettare altre vittime?
«Molti di quelli che sono in difficoltà: usciranno dal mercato, o verranno venduti. L'importanza della situazione patrimoniale dell'azienda è fondamentale: le banche non danno soldi, in Borsa non puoi andare, i fondi se entrano in azienda ti prendono per la gola… Se credi nell'azienda devi tirare fuori i soldi tu».
Ci sarà redistribuzione tra grandi e piccoli?
«E' possibile che Burani o un Bulgari vada a finire in mano a qualcun altro. Ma se prendiamo i primi italiani, che sono Max Mara, Zegna, Miroglio, Benetton, Prada, Armani, Versace, hanno tutti la massa critica per gestire un business a livello mondiale. Il problema si pone con le aziende da 50-100 milioni di fatturato. E' lì che avverranno le aggregazioni».
Il denaro dei fondi di private equity non sembra più interessato al mondo della moda.
«Come dice Andrea Perrone, l'amministratore di Brioni, se un fondo entra in azienda rischia di distruggerla, perché in cinque anni deve uscire e guadagnare. Gli imprenditori sono scettici sui fondi perché non ne vedono uno che ha avuto successo. Permira a febbraio ha le prime scadenze del debito fatto per prendere Valentino. Ce la farà?».
Chi è oggi il manager della moda più brillante?
«Andrea Guerra di Luxottica. Ma è anche vero che Del Vecchio gli lascia spazio che altri non hanno: da Armani a Tod's, a guidare sono i padroni. Anche Missoni si è appena ripreso il comando».
Estratto da: L'espresso dell'11-12-09, a cura di Pambianconews