Mercoledi mattina si ritroveranno a Strasburgo, nel cortile del Parlamento europeo, dove apriranno ombrelli che, son diversi colori, comporranno la scritta «made in». Promotori, Euratex, l'organizzazione degli imprenditori tessili europei, e l'Unione industriali di Biella. Una pressione, l'ennesima, per convincere l'Unione europea ad approvare, finalmente, l'obbligatorietà dell'etichetta di origine sui prodotti che entrano in Europa.
Se si scorre l'elenco dei Paesi che chiedono che un prodotto, per entrare sul proprio mercato, attesti dove è stato fatto si vede che, nel mondo, c'è solo un'importante area scoperta: ''Europa. In America 1'etichetta di origine è imposta fin dal 1930, in Giappone dal 1970. E poi il Canada, il Sudafrica, il Brasile… Anche la Cina la richiede.
La trattativa, in corso ormai 3a alcuni anni, è difficile tanto che nelle scorse settimane il presidente della Camera nazionale della moda, Mario Boselli, si è rivolto direttamente ai consumatori invitandoli a lasciare negli scaffali i prodotti che non indicano il luogo di produzíone. La scorsa settimana erano stati Acte (l'associazione delle comunità tessili europee) e Etuf-Tel (la federazione sindacale europea del tessile-abbigliamento) a lanciare una petizione per una «qualità certificata»: trasparenza, tracciabilità, composizione e origine dei prodotti tessili, di abbigliamento e di pelletteria.
Ma quale «made in»? Solo per abiti e accessori prodotti da Paesi terzi? E quelli prodotti in Europa? Una scarpa o un abito realizzati in Romania sono uguali a una scarpa o un abito fatti in Italia? La discussione in corso all'Unione europea riguarda il «made in» per i prodotti che entrano in Europa. Una misura che non convince Luciano Barbera, ad del Lanificio Carlo Barbera, capofila di chi sostiene invece un «made in» senza mezze misure: «II consumatore – dice – deve poter distinguere la provenienza di tutte le merci, anche di quelle prodotte in Europa. Ciò che è fatto in Italia e ciò che è fatto in ogni singolo altro Paese.
A Biella non sono pochi gli imprenditori, soprattutto i più piccoli, che premono per questa soluzione». Proprio per questo Barbera si è dimesso da Smi-Ati, l'organizzazione confindustriale del settore che sostiene il «made in» solo per le merci provenienti da Paesi extra europee.
E di recente ha scritto al ministro Bersani: «Per le nostre aziende – ha scritto Barbera sarà un suicidio di massa non appena il mondo si renderà conto che i valori di cultura, di qualità e di stile e di manodopera propagandati con il “made in Italy” sono per lo più menzogne».
Estratto da CorrierEconomia del 24/09/07 a cura di Pambianconews