"Vogliamo arrivare ancora più in alto. Ma questo non ci impedisce di apprezzare i traguardi raggiunti". Sa di aver bruciato le tappe di un difficile rilancio, Michael Burke (nella foto), il manager quarantanovenne che dal 2004 è amministratore delegato di Fendi, il marchio italiano finito un lustro fa nell'orbita della multinazionale del lusso Louis Vuitton Moet Hennessy, Lvmh. E non nasconde la soddisfazione. Lavorando in silenzio, ha precorso i tempi richiesti dalla casa madre festeggiando il break even già nel 2005, in coincidenza con gli 80 anni della maison, e raggiungendo l'utile operativo a fine 2006, con un giro d'affari intorno ai 300 milioni.
Cosa è cambiato rispetto a tre anni fa?
Non molto. Fendi, tecnicamente, era già un marchio perfetto: aveva storia, tradizione, fascino. Non c'è stato bisogno di rivoluzioni, ma di un cambio di prospettiva.
Come ha riallocato le risorse?
Concentrandomi sulle aree che già funzionavano: il prét-à-porter femminile, le borse, gli accessori. Tre voci che sommate valgono circa 1'80% del nostro fatturato. Borse e pelletteria pesano sui ricavi per il 55%: nel 2006 le vendite sono triplicate. Poi viene l'abbigliamento, con un giro d'affari raddoppiato. Negli ultimi 12 mesi anche le calzature si sono distinte per redditività, con 200 mila paia vendute.
Veniamo al bilancio generale.
A fine 2005 i conti hanno raggiunto il pareggio operativo: un anno d'oro che neppure noi avevamo previsto. Questo ci ha permesso di conseguire un discreto utile già a fine 2006, in anticipo di un paio di esercizi sulla tabella di marcia. Lo scorso anno stime ufficiose parlavano di un fatturato sui 270 milioni. Se i calcoli sono giusti, siete a quota 300. Posso solo precisare che il business plan concordato con Lvmh prevede 500 milioni di ricavi per fine 2008, con un utile di 100, e che in questo momento abbiamo abbondantemente superato la metà del guado per entrambe le voci.
Estratto da Economy del 9/02/07 a cura di Pambianconews