«Altro che Cina e India, se dovete produrre bene venite in Turchia». Parola dell'Itkib, l'Associazione degli esportatori tessili turchi, che per trovare nuovi partner tra le aziende italiane ha pensato di sbarcare nel nostro Paese con una fiera dedicata, TexBridge, che si svolgerà a Milano, all'Hotel Marriot dal 14 al 16 febbraio 2007. Un appuntamento semestrale che seguirà i ritmi della moda e di cui è prevista una seconda edizione a settembre 2007. Un'exhibition per addetti ai lavori durante la quale 40 selezionatissime aziende turche incontreranno possibili partner italiani: compratori di tessuti e produttori d'abbigliamento interessati sia all'acquisto di materiali e tessuti per abbigliamento, sia al prodotto finito, sia a delocalizzare la produzione in un paese dal costo della manodopera più competitiva.
Padrone di casa dell'iniziativa è un italiano, Claudio Cottone, consulente di marketing internazionale e rappresentante in Italia di Itkib, che spiega come TexBridge sia un nuovo concetto di fiera che ha già riscosso un ottimo successo sia a Londra che a New York, dove è ormai un appuntamento consolidato da anni. «In Inghilterra e negli Stati Uniti sono già centinaia le aziende che hanno sviluppato una partnership con aziende tessili turche e contiamo di avere un notevole successo anche in Italia», aggiunge Cottone e spiega che anche l'edizione milanese di TexBridge avrà una periodicità semestrale, ««che seguirà i ritmi e i tempi della moda, quindi a febbraio e a settembre».
La Turchia potrebbe essere la valvola di sfogo per le aziende italiane che non vogliono andare in Cina per tutti i problemi a cui vanno incontro e perché le realtà del Far-East non c'è per tutti». Ma soprattutto le imprese turche, spiega Cottone, garantiscono una qualità che Cina e India non riescono ancora a raggiungere. «È un Paese che nel tessile ha una cultura consolidata. Sì può offrire un prodotto di qualità simile a quella italiana con il vantaggio di avere una differenza di costo di manodopera e dei costi sociali che, seppur differenti da quelli cinesi, scendono comunque del 30% rispetto a quelli italiani». Ma c'è un altro costo, immateriale, dal quale la Turchia mette al riparo. «È quello legato alla reputazione. Produrre nel Far-East significa esporsi anche a possibili situazioni di sfruttamento del lavoro minorile, che possono danneggiare anche pesantemente l'immagine dell'azienda. Questo in Turchia non avviene, è un rischio che non si corre».
Estratto da Finanza & Mercati del 19/12/06 a cura di Pambianconews