Per salvare il processo di liberalizzazione mondiale dei commerci avviato a Doha nel 2001 basterebbe che fosse approvata la proposta del G20 (il gruppo di Paesi emergenti guidato da Brasile, India e Cina), secondo la quale le nazioni sviluppate dovrebbero ridurre mediamente del 54% le barriere tariffarie all'import di prodotti agricoli dal resto del mondo. Ci vorrebbe poi un limite massimo di 20 miliardi di dollari ai sussidi che tutti i Paesi concedono ogni anno ai propri agricoltori. Infine, dovrebbe essere fissata al 20% la quota massima di protezione tariffaria che le nazioni in via di sviluppo oppongono all'importazione di beni industriali dal mondo ricco.
Così ha spiegato ieri Pascal Lamy, direttore generale della World Trade Organization (Wto, l'organizzazione mondiale del commercio) alla vigilia di un summit che lui stesso definisce «l'ultimo prima che il tempo a disposizione scada». Perché quello che si apre oggi a Ginevra, dove stanno confluendo i ministri di circa 60 Paesi della Wto, è un vertice che ha davvero il sapore di un'estrema chance per non mandare definitivamente in fumo il round di trattative faticosamente aperto cinque anni fa nella capitale del Qatar, passato poi attraverso il clamoroso fallimento del 2003 a Cancun, in Messico, e tenuto in vita grazie alla mini-intesa del dicembre 2005 a Hong Kong, quando le 149 nazioni dell'organizzazione approvarono una bozza che perlomeno fissa l'azzeramento di tutti i sussidi all'export agricolo a partire dal 2013.
Sullo scacchiere europeo, dove il cambio di squadra italiano sembra rafforzare le posizioni “liberiste” del negoziatore Ue, il britannico Peter Mandelson, e prendere le distanze dal rigido protezionismo francese. Rispetto all'atteggiamento tenuto dagli uomini del governo Berlusconi (il ministro dell'Agricoltura Gianni Alemanno e il viceministro per il Commercio Estero Adolfo Urso), la coppia Emma Bonino, ministro per il Commercio Internazionale, e Paolo De Castro, ministro per le Politiche Agricole, appare meno disposta alla difesa dei singoli settori produttivi nazionali più esposti agli effetti della liberalizzazione (dai tessili ai calzaturieri, per esempio) e più propensa a intese globali, nella convinzione che l'apertura dei mercati, su base di reciprocità, rappresenti un vantaggio anche per il nostro Paese. L'Italia, insomma, sembra voler giocare un ruolo più dinamico rispetto al passato.
Estratto da Corriere della Sera del 29/06/06 a cura di Pambianconews