Il made in Italy è un valore che va difeso. È il messaggio emerso ieri dal convegno organizzato da Pambianco Strategie di Impresa. Ma gli imprenditori della moda hanno visioni differenti sul come, e a quale prezzo, il sistema debba proteggere il marchio italiano. La posizione di Robert Polet, amministratore delegato di Gucci Group, è chiara: «L'italianità fa parte del dna di Gucci, che pur essendo stato rilevato da un gruppo francese continuerà a essere prodotto in Italia».
Il più feroce difensore dell'italianità resta Diego Della Valle. Per il patron di Tod's, delocalizzare all'estero la produzione di un marchio di lusso rischia di creare, nel lungo periodo, più danni che benefìci. «Non condanno chi fa altre scelte e va a produrre in Turchia o in Cina per contenere i costi, commenta Della Valle. Purché sia trasparente con il consumatore e lo dichiari nell'etichetta, in modo da non ingannare il cliente e non svilire qualità e prestigio garantiti dal made in Italy».
Ma la produzione non è l'unico atout in mano alle aziende italiane. «Sono italiane quelle che hanno sede, cuore, management e creatività basate nel nostro Paese, spiega Francesco Trapani, amministratore di Bulgari. All'estero esistono altre eccellenze, come la Svizzera per gli orologi. Resta il fatto che alcune categorie di prodotti del lusso, confezionati fuori dai nostri confini, sono comunque made in Italy perché rispecchiano il nostro gusto e il nostro modo di fare impresa». Con un distinguo, valido all'interno di grandi categorie, per esempio l'abbigliamento. «Non credo che determinati capi, come una maglietta per esempio, debbano essere per forza prodotti in Italia, commenta Michele Norsa di Valentino Fashion Group, così come determinati abiti di Valentino non possono che essere realizzati nei nostri atelier».
Andrea Guerra di Luxottica suggerisce alle aziende che devono andare all'estero, per la distribuzione o l'acquisizione di altri marchi, di farlo in modo «strutturale», sostenendo per il futuro la tesi di «una maggiore collaborazione tra ambasciate, camere di commercio e Ice». A questo proposito Giovanni Burani, di Mariella Burani, auspica «una maggiore cooperazione a livello di sistema Paese» per difendere un valore che è di tutti. Ciò nonostante le aziende della moda non si aspettano che lo Stato intervenga in loro sostegno, poiché fa parte del gioco essere competitivi a livello internazionale.
Estratto da Finanza&Mercati del 9/11/05 a cura di Pambianconews