Ma davvero l'etichetta di Made in Italy non ha più senso o è addirittura a rischio di sopravvivenza? Paolo Zegna, amministratore delegato (con il cugino Gildo) dell'omonimo gruppo e presidente della Federazione che unisce tessile e moda, nega un'ipotesi da «marchi sull'orlo d'una crisi di nervi» in uno scenario così inquietante. «Non dico sia un momento facile, dice, però non c'è alcun motivo d'essere pessimisti. Non stiamo perdendo nè identità nè soprattutto qualità, le nostre due vere grandi risorse».
L'accusa però è precisa: utilizzando tessuti indiani o sarti egiziani, tanto per fare un esempio, resterebbe ben poco del mitico Made in Italy. Un'obiezione di cui dobbiamo tenere conto? «Certo non possiamo fare finta di credere che la situazione oggi sia uguale a dieci anni fa. Il mercato è cambiato, i costi ancora di più. C'è concorrenza spietata sia sui materiali, sia sulla mano d'opera. Ma a parte certe linee di prodotti, decentrate in altri paesi, gran parte del Made in Italy è di fattura esclusivamente italiana».
Resta dunque da capire come proteggere un'etichetta che rischierebbe di trasformarsi soltanto in uno slogan senza sostanza. C'è un rimedio? «Evitare qualsiasi confusione e affidarsi alla massima trasparenza. Il cliente ha il massimo diritto di essere informato, oltre che sulla composizione, anche sull'origine del tessuto e sulla nazionalità di chi l'ha lavorato. In questo senso il modello statunitense è il più trasparente perché spiega tutte le voci nel dettaglio».
Estratto da Corriere della Sera del 28/09/05 a cura di Pambianconews