«Una fabbrica al Cairo nasconde uno dei più grandi segreti dell'alta moda italiana: i sarti egiziani». Inizia così il lungo reportage apparso ieri sulla prima pagina del Wall Street Journal, sotto il titolo «L'alta moda italiana infrange un tabù e comincia a produrre oltremare». «Prima di spedire i suoi vestiti nelle boutique in Europa, Valentino sostituisce l'etichetta del made in Egypt con quella made in Italy», scrive il giornale. Le reazioni? Michele Norsa, a.d. di Valentino Spa, frena e spiega al Corriere: «Valentino Fashion Group nel suo insieme produce meno del 10% dei capi fuori dall'Europa. La lavorazione all'estero vale per i prodotti meno elaborati. Mentre per la moda femminile e i relativi accessori non sono ancora ipotizzabili produzioni fuori dall'Italia».
«Tra 15 anni le linee principali del polo del lusso saranno completamente delocalizzate», spiega al Journal Tonino Perna, della It Holding Spa, che produce collezioni di medio costo per Versace e Dolce & Gabbana, il 30% delle quali oltreoceano. Anche Giorgio Armani oggi produce il 18% della Armani Collezioni negli stabilimenti in Europa dell'Est. «Il concetto del made in Italy va al di là delle industrie e degli impiegati. È uno stile e i nostri acquirenti spendono volentieri di più perché sanno di pagare non solo un prodotto, ma anche il know how con cui viene creato, replica però lo stilista. Ci sono poi molte ragioni per le quali uno decide di produrre fuori, e quella economica è la meno importante. Il cashmere in Cina, per esempio, ha standard di qualità molto più elevati rispetto agli altri tipi. Lo stesso vale per il denim della California. E il cantante Bono mi sta rincorrendo per convincermi a produrre alcuni articoli in Africa».
E Prada? Patrizio Bertelli, al quotidiano Usa risponde seccato: «Che v'importa dove produco le mie scarpe?». L'amministratore delegato di Prada aggiunge che, dove le leggi lo consentono, preferisce inserire l'etichetta made by Prada.
Estratto da Corriere della Sera del 28/09/05 a cura di Pambianconews