Dopo la liberalizzazione delle importazioni dall'Estremo Oriente a inizio 2005, che segue 31 anni di dazi; dopo il dietrofront di giugno, con l'accordo Europa-Cina che limita la crescita dell'export tessile dalla Cina a circa il 10% annuo; dopo il dietro-dietrofront di venti giorni fa che ha limitato le limitazioni e sbloccato i capi fermi alle dogane; dopo tutto questo, anche tra le aziende italiane (come tra i produttori del Nord Europa) cresce l'insofferenza verso il sistema dei tetti invocato a protezione.
«La realtà è che tutti lo fanno, ma nessuno lo dice, osserva Alberto Forchielli, presidente dell'Osservatorio Asia, centro studi bolognese che ha appena pubblicato il primo censimento in materia. L'intero sistema tessile italiano, eccettuati i piccolissimi produttori, ha una forte dipendenza dalla Cina, dove si approvvigiona. Il problema è il “quanto”, ma sarà sempre più. Oggi un quarto dell'export mondiale viene dalla Cina, che presto salirà al 50%. Il sistema delle quote tutela i produttori cambogiani e vietnamiti nei confronti dei cinesi, ma non aiuta certo italiani ed europei: non serve a nulla, e insistere su questa strada ci rende ridicoli».
Le aziende che avevano cominciato a rifornirsi a Pechino, in partnership con «terzisti» locali, stanno ora spostandosi daccapo. La Diesel, che in Cina realizzava il 30% del prodotto, sta riducendo grandemente per fabbricare i capi in India, Nord Africa e persino in Portogallo. Ma la griffe creata da Renzo Rosso, ormai un colosso da un miliardo d'euro di fatturato, è un caso a sé: già da un paio d'anni ha riportato quote di produzione in Italia (dal 35% al 50%), per valorizzare il made in Italy, quando tutti fanno il contrario. «Nel breve periodo, l'esigenza delle quote c'è, spiega Rosso, per tutelare il nostro artigianato tessile, che altrimenti ne uscirebbe distrutto, e parimenti per “esportare” in Cina la nostra cultura di protezioni sociali. Però è innegabile che per aziende come la nostra poter produrre in Cina è un vantaggio: lì si realizzano i prodotti accessibili a tutti, che fabbricati altrove costano di più».
Estratto da CorrierEconomia del 26/09/05 a cura di Pambianconews