I produttori italiani concordano: l'accordo di Shanghai è l'ultimo baluardo contro un nemico che non è solo cinese. «Gli spazi di manovra si possono trovare, ma deve essere un do ut des, afferma Mario Boselli, presidente della Camera nazionale della moda, non siamo cioè contrari a priori all'utilizzo di una parte dei contingenti 2006 per risolvere l'emergenza del 2005, purché si resti entro le percentuali previste. In cambio chiediamo alla grande distribuzione di non insistere nelle pressioni sui governi europei per ostacolare l'etichetta «made in» obbligatoria, cioè l'indicazione del Paese dove è realmente avvenuta la fabbricazione del prodotto: in questo modo si combatte la concorrenza sleale, a vantaggio dei consumatori. È una proposta ispirata al buon senso e largamente condivisa».
«Questa indicazione è obbligatoria negli Stati Uniti, in Giappone e persino in Cina, dice Luciano Barbera, amministratore delegato del gruppo Carlo Barbera, e solo l'Europa non si rende conto di quanto sia necessaria, anche perché subisce le pressioni della grande distribuzione, che è l'unica ad arricchirsi in questa situazione anomala. ».
Boselli rincara la dose. «L'Italia è l'unico Paese dove non sono stati trasferiti al consumatore finale i vantaggi che la distribuzione ha ottenuto grazie agli approvvigionamenti a basso costo sul mercato cinese, oltretutto a prezzo di uno sfruttamento della mano d'opera di cui non si parla abbastanza. È una concorrenza sleale che magari non preoccupa le grandi firme, ma danneggia moltissimi produttori di buon livello nel nostro Paese».
Estratto da Il Giornale del 30/08/05 a cura di Pambianconews