Se si guardano i dati di questa analisi realizzata da Pigoli Consulenza per Corriere Economia si capisce perché arrivare al famoso marchio made in Italy sia così difficile. Il punto è che ormai moltissime delle società di quel grande settore che va sotto il nome «moda» producono anche fuori dall'Italia. In Cina, in Turchia, in Tunisia, in Thailandia, oppure in Romania, in Slovacchia, in Polonia. Sempre più, insomma, anche le aziende italiane si orientano sul modello già adottato dai grandi brand americani, come Ralph Lauren; o delle catene del casual, come la svedese H&M o la statunitense Gap.
Per il resto, l'analisi dei bilanci del 2003 evidenzia quello che si potrebbe definire «ritorno alla normalità»: né tassi di crescita infinite né cadute vertiginose che trascinano la moda, e in particolare il lusso, o perdite verticali del fatturato. Lo studio registra, infatti, questo andamento regolare, che ha contribuito a costruire la fase positiva nella quale sono entrati, quest'anno, alcuni dei principali Paesi industriali. A dimostrazione che i tempi di crescita determinati dalle variabili macroeconomiche non sono brevi: oltre cinque mesi, secondo quanto ci indica la storia delle precedenti fasi cicliche riportate dal Fashion Economic Trends, l'osservatorio periodico curato dalla Camera nazionale della moda.
Assorbito l'effetto Sars e in qualche modo metabolizzato quello del terrorismo, la moda sembra essersi concentrata sulla propria riorganizzazione, che equivale, dopo la bulimia di marchi e di aziende che ha caratterizzato la grande stagione delle acquisizioni alla fine del '90, a una maggiore concentrazione sul prodotto e all'identificazione di marchi forti. «La logica dei supergruppi, spiega Sergio Pigoli, era più delle banche d'affari che delle aziende».
Estratto da CorrierEconomia del 19/07/04 a cura di Pambianconews