Quando Gucci ancora non era Gucci, ma un gruppo allo sbando prossimo al baratro, i soldi per salvarlo dal fallimento arrivarono nientemeno che dal Bahrein. Erano petrodollari della Investcorp, venivano dal Golfo Persico, o giù di li. Era il tempo in cui il sistema bancario italiano ancora si chiamava «foresta pietrificata», e l'imprenditore che affrontava le porte di un istituto di credito recitava a mente il verso nono del canto terzo dell'Inferno dantesco («lasciate ogni speranza eccetera eccetera»), a meno di non poter contare su un consistente patrimonio fatto di terreni, capannoni o tesori di famiglia. Le cose sono cambiate parecchio (e in qualche caso «creativo», anche troppo) nel rapporto tra finanza e industria. Non così tanto, tra banche e industria della moda. Qui i confini per affari reciproci restano ancora inesplorati, per certi versi. Una zona selvaggia dove il sistema creditizio può sperimentare quale ruolo da interpretare nel rilancio di un Paese sempre più povero dal lato industriale.
Questo, più o meno, è quanto deve aver pensato Pietro Modiano, amministratore delegato di Unicredit Banca d'Impresa, quando qualche mese fa è uscito dall'ufficio di Raffaello Napoleone, numero uno di Pitti Immagine, l'ente organizzatore delle fiere moda fiorentine che qualcuno indica come un «salotto buono» del made in Italy. Già, perché dopo quell'incontro il gruppo milanese è partito alla carica: ha creato uno team di una decina di persone, supportato da tutte le branch dell'azienda per monitorare, studiare e scovare le aziende del made in Italy «ad alto potenziale». E dotarle delle risorse finanziarie per il lancio. Proprio così: «Risorse finanziarie, ripete Fabio Tamburini, responsabile del progetto, significa tutto quanto fa finanza evoluta». Detto all'inglese: private equity, bond, buyout e, ovviamente, ipo.
II progetto di Piazza Cordusio (sviluppato con la Camera di commercio di Firenze e, appunto, con Pitti Immagine) rappresenta l'attacco più diretto portato alla torta della moda italiana. Una torta succosa, sia in termini di valore: il made in Italy rappresenta una delle prime tre voci della bilancia commerciale nazionale, con un fatturato complessivo tra 70 e 80 miliardi; sia in termini di struttura, vista la frammentazione del fashion in migliaia di piccole e medie aziende. Tra queste, secondo una ricerca di Borsa Italiana, ci sono per esempio circa 80 aziende già in possesso dei requisiti, il cui sbarco al listino potrebbe raddoppiare la capitalizzazione dei titoli della moda (oggi fermi a un misero 3% del valore complessivo del listino).
Vedi tabella che segue
Estratto da Finanza&Mercati del 26/03/04 a cura di Pambianconews