Se sua zia non avesse sposato un grande imprenditore tessile piemontese, forse Luigi Colombo sarebbe restato a Saronno, a produrre dolciumi nell'impresa paterna. Invece il suo destino era andare in Valsesia, mettere su un'azienda e vendere cashmere a mezzo mondo. Partire con quattro telai, comprati nel 1969 insieme alla moglie Luciana, e arrivare a una piccola multinazionale da 60 milioni di euro di fatturato, il Lanificio Luigi Colombo di Borgosesia (Vercelli): l'unica impresa tessile che qualche anno fa spiccava nella classifica delle 500 industrie europee a maggior tasso di crescita. Una delle poche che possono permettersi di guardare alla Cina, spauracchio del made in Italy, con la tranquillità di chi fa «lusso industriale», come lo definisce il figlio di Colombo, Roberto, 55 anni, amministratore delegato del lanificio e contitolare insieme al fratello Giancarlo, classe 1951.
Roberto Colombo ne è convinto: nella fascia superiore del mercato il monopolio può essere solo italiano, nonostante gli allarmi che danno per spacciato il tessile nazionale di fronte all'aggressività commerciale della Repubblica popolare cinese. «Lì guardano al business puro, al guadagno, mentre i nostri prodotti sono fatti con amore, sofferenza, cultura del lusso. Usiamo ancora i cardi naturali per trattare i tessuti, li facciamo arrivare dal Portogallo» racconta l'imprenditore, tra i primi a confrontarsi con i pastori quando il governo cinese, nel 1990, aprì alle vendite dirette con gli occidentali. «I cinesi ragionano con altri parametri: un mio amico qualche tempo fa mi ha detto di essersi tolto dal tessile perché è un mestiere per poveri». I fratelli Colombo non la pensano così. Paolo ha lasciato l'azienda, cedendone le quote, ma Roberto e Giancarlo hanno tutta l'intenzione di far crescere fatturato e utili per altri vent'anni.
Roberto, eletto nel frattempo miglior imprenditore europeo per la media impresa dopo aver superato nelle selezioni oltre 8 mila candidati, non ha alcuna intenzione di quotarsi in borsa né di cercare partner finanziari. La sua non è la logica del marchio commerciale, è quella dell'industriale che non fa il passo troppo lungo: «Non apriremo negozi a raffica. Abbiamo cominciato con quattro grandi spazi e due piccoli punti vendita in Italia, poi c'è quello di Parigi appena inaugurato. Ci affacciamo all'Europa con calma».
Estratto da Panorama del 27/02/04 a cura di Pambianconews