«Il protezionismo non deve tutelare l'inefficienza. Ma può essere uno strumento legittimo contro la concorrenza sleale». Il riferimento è ovviamente alla Cina, al suo costo del lavoro di 20 centesimi di dollaro l'ora e alla sottovalutazione del 30-40% dello yuan, che rendono le sue merci imbattibili persino da altri Paesi in via di sviluppo, come sottolinea Pier Guerci, presidente di Loro Piana negli Stati Uniti. Il quale avverte che la competizione cinese è pronta ad attaccare ormai anche sui prodotti di alta qualità, incoraggiata dalla grande distribuzione americana. Pier Guerci, 43 anni, conosce bene che cosa vogliono dire le barriere delle tariffe e delle quote di importazione, perché lui stesso ha dovuto farci i conti per entrare nel mercato americano. C'è riuscito e ora il fatturato Usa del marchio biellese è pari a circa un terzo del totale (260 milioni di euro previsti nel 2003, un terzo dall'Italia, un terzo da Europa e Far East).
Per superare le barriere d'ingresso negli Usa, voi quattordici anni fa avete comprato una fabbrica nel Connecticut e iniziato a produrre localmente. è stato un affare?
«è stata la mossa giusta. Abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, diventare l'unico produttore in Usa di tessuti fini e pregiati e creare un mercato per prodotti di questa qualità. Abbiamo completamente ristrutturato la fabbrica, verticalizzandola dalla filatura al prodotto finito; i dipendenti sono aumentati dal centinaio iniziale agli attuali 250, parallelamente al fatturato. Abbiamo diversificato la gamma dell'offerta dai tessuti per chi confeziona gli abiti, come Brooks Brothers, agli accessori con il nostro marchio per la grande distribuzione di lusso, fino alla maglieria in cashmere e all'abbigliamento sportivo. Abbiamo aperto nel '93 a New York il primo negozio Loro Piana e abbiamo continuato a crescere anche durante gli anni difficili del declino dell'abito formale, grazie al nostro rapporto prezzo/qualità. Sono convinto che abbiamo davanti ancora grandi potenzialità di espansione».
Dal punto di vista della qualità, la vostra produzione americana è uguale a quella italiana?
«Certo. I macchinari e la materia prima sono uguali e la manodopera è preparata da noi. Una curiosità: parte dei dipendenti della fabbrica del Connecticut viene dalla comunità locale di coreani, che sono bravissimi nel rammendo a mano, una delle lavorazioni necessarie per i nostri prodotti».
Temete davvero lo sbarco dei cinesi anche nel vostro segmento di lusso?
«La Cina comincia ad essere concorrenziale anche sull'alta qualità. Stanno facendo notevoli passi avanti con le tecnologie. Non hanno fantasia per il design, è vero, ma dalla loro hanno la grande distribuzione, che negli Stati Uniti è dominante ed è interessata solo ad aumentare i propri margini di profitto: per contenere i prezzi, i fornitori devono ricorrere sempre più all'outsourcing e alle lavorazioni in Asia. Ora negli Usa vigono le quote che limitano le importazioni di tessuti e capi d'abbigliamento dalla Cina, ma se vengono abolite…»
Estratto da CorrierEconomia del 20/10/03 a cura di Pambianconews